Questa settimana in RoundUp: il lancio del sito di Glenn Greenwald e il modello del giornalismo personale; l'ascesa dell'editoria no profit per il bene comune con l'esempio di The Intercept e il nuovo The Marshall Project di Keller (che lascia il New York Times); l'ibridazione fra piattaforma e contenuti degli utenti in una teoria elaborata dal CEO di Sulia. Intanto Facebook continua a influenzare il successo, e il fallimento, di post e testate online.
The Intercept di Greenwald e il «personal franchise model»
L’evento principale nel mercato dei media digitali di questa settimana è certamente l’esordio della prima creatura del gruppo First Look Media di Pierre Omidyar, The Intercept. Curato da Glenn Greenwald, Laura Poitras e Jeremy Scahill, il magazine (definizione ambigua della quale ha scritto Mathew Ingram su Gigaom) è il sito sul quale l’ex giornalista e blogger del Guardian pubblicherà quanto contenuto nei file di Edward Snowden «per raccontare la verità all’opinione pubblica, soprattutto smascherando le bugie ufficiali» - secondo quanto dichiarato a DemocracyNow. Un approccio ambizioso (e non privo di critiche per il metodo e la scelta delle informazioni da condividere, come quelle fatte da Wikileaks) senza l’assillo della ricerca sistematica di colpi giornalistici da pubblicare a ciclo continuo: «I tempi saranno dettati principalmente dal lavoro stesso» ha spiegato a Capital New York Eric Bates di First Look, sottolineando quanto la totale e indipendente gestione del lavoro rientri nelle virtù del modello filantropico immaginato per le sue testate da Omidyar. Obiettivo a lungo termine del sito, si legge nella presentazione, è diventare la più credibile sentinella mondiale su una serie di temi specifici - che vanno dalla privacy agli abusi di potere, le violazioni delle libertà civili e la corruzione economico-politica - con una voce riconoscibile e indipendente.
Il tema della specificità è uno di quelli che anima la definizione di «personal franchise model» coniata dall’advisor del gruppo Jay Rosen, un tipo di costruzione editoriale che si basa su uno stile chiaro e distinguibile, sullo scambio continuo coi lettori e l’identificazione della testata in una o più firme di riconosciuto carisma: Rosen cita i precedenti di Andrew Ross Sorkin, storica firma del New York Times e creatore del sito Dealbook, di Grantland di Bill Simmons e ESPN e i già noti casi di Ezra Klein, Andrew Sullivan e Nate Silver. Stili diversi, diversi modelli di business, come tanti rami di un albero che affonda le proprie radici nel terreno fertile dei blog personali: Rosen la definisce «razionalizzazione» del blogging, fenomeno esteso e confuso degli anni duemila che, attraverso un’evoluzione pressoché naturale, avrebbe portato dalle pagine individuali ai blog di gruppo, quindi alla formazione di piccole redazioni di successo e da qui alla ricerca di un business sostenibile da contendere, da pari a pari, ai grandi gruppi.
Giornalismo digitale per il bene comune
Se quella dell’avventura solitaria alla ricerca di modelli commerciali e editoriali nuovi per Rosen appare come un’inevitabile evoluzione strutturale, per John Cassidy sul New Yorker ci troveremmo al cospetto di un modo tutto nuovo di intendere la professione giornalistica, che online trova nuove sfide e nuovi strumenti. Per illustrare la propria teoria Cassidy prende spunto dall’altra notizia della settimana: l’addio di Bill Keller al New York Times – testata nella quale era Executive Editor - per partecipare alla costruzione di un nuovo sito di news specializzato in criminalità e cronaca giudiziaria. The Marshall Project si avvarrà infatti del sostegno economico del manager e giornalista Neil Barksy e andrà alla ricerca di sussidi economici di fondazioni benefiche, avvicinandosi in qualche modo alle sorti e alla natura di The Intercept: la vocazione al giornalismo di qualità e la natura non esplicitamente for profit del proprio business, sulla scorta dell’esempio di ProPublica.
Cassidy intravede una crescente tendenza a sentire la professione giornalistica come strumento al servizio dell’interesse pubblico, che trova forza in iniziative filantropiche sufficienti a coprire i più bassi costi di produzione del giornalismo online rispetto a quello tradizionale. Di certo sussistono ancora pochi elementi per parlare di riproducibilità economica, ma per l’autore «today, at least, there is some good news to report».
Un’organizzazione no profit «si mantiene attraverso eccellenza e impatto, così come per quelle a scopo di lucro» spiega Barsky, fondatore di The Marshall Project, a Justin Ellis su NiemanLab. «La differenza però - continua - è che ci sono persone di buona volontà disposte a supportarci se facciamo un buon lavoro». È il senso del progetto stesso del sito, che Keller vede come «journalism with a sense of purpose», con una finalità ben precisa, più che presidio editoriale e commerciale di un’area specifica - che intende comunque ampliare e rendere commestibile a una platea più ampia anche grazie all’uso dei social network e a una redazione di specialisti. In questo senso Paul Steiger di ProPublica parla di nuova e gloriosa era per il giornalismo, che ha bisogno di professionalità forti, nessuna improvvisazione e un approccio old media applicato al digitale: non si tratta di riecheggiare i fasti della carta, specifica in un suo discorso, ma di scommettere davvero sul digital first, dimostrando che anche online - se non soprattutto - si può fare giornalismo per il bene comune.
I platisher e noi
Il panorama editoriale, d’altra parte, appare sempre più come un mercato ibrido, abitato da vecchi e nuovi cacciatori in cerca di prede ancora invisibili: pochi giorni fa Jonathan Glick, CEO di Sulia, ha coniato su ReCode il (brutto) termine platisher per indicare quei prodotti basati sulla commistione fra le piattaforme che ospitano contenuti editoriali (platform) e la possibilità per chiunque di poterne produrre senza strutture e competenze peculiari (farsi dunque publisher). Il trend individuato da Glick è quello che avrebbe portato al lancio, sempre più frequente, di servizi costruiti proprio con queste caratteristiche (un esempio su tutti Medium, di cui abbiamo già parlato qui) e all’adeguamento di testate e siti già esistenti (la piattaforma Kinja per Gawker, che sta cercando una via di mezzo fra i commenti dei lettori e articoli UGC, e la community di BuzzFeed che già adesso può generare contenuti per il sito). Gli interrogativi che un’effettiva espansione di questo mercato potrebbe sollecitare appaiono quasi scontati: ci si deve in qualche modo abituare a una rete nella quale i contenuti professionali (costruiti tramite prestazioni a pagamento, come per alcuni contenuti di Medium) condividono la stessa piattaforma con quelli gratuiti degli utenti? Chi sceglie - e secondo quali priorità - quale preferire: un giudizio di carattere editoriale (e di matrice umana) o un semplice algoritmo?
Quesiti legittimi, quando nel terreno delle pubblicazioni online, prodotte con piglio professionale o meno, entrano in gioco anche i social network - come LinkedIn e Facebook. Quest’ultimo, per esempio, come già detto nelle settimane scorse non nasconde la propria volontà di diventare una specie di bizzarro editore, ospitando contenuti generati da utenti e news company e indicizzandoli seguendo una meccanica interna ben precisa. Una logica che col passare dei mesi è diventata sempre più decisiva per le sorti dei giornali online: stando a «The Facebook effect on the news» di Derek Thompson su The Atlantic il numero delle visite verso giornali online provenienti da Facebook sarebbe cresciuto nettamente negli ultimi mesi (qui un grafico eloquente) rispetto ai referral provenienti dalle ricerche di Google, dopo un lungo periodo di sostanziale parità. Thompson cerca di analizzare il funzionamento del news feed di Facebook e la longevità e il successo delle notizie su di esso, arrivando a una conclusione non troppo pessimistica: algoritmi a parte, che penalizzano in base a cambiamenti periodici e imprevedibili alcune testate piuttosto che altre (ed è il caso di Upworthy, studiato questa settimana da Business Insider), Facebook non farebbe altro che riprodurre i gusti e le preferenze dei propri utenti-lettori, che decidono attraverso l’utilizzo stesso del social cosa vorrebbero vedere più spesso in bacheca e cosa no.
Più gatti e meno hard news, quindi, senza per questo minare la sopravvivenza del giornalismo: «Le notizie leggere hanno battuto le altre news da molto tempo prima che arrivasse Zuckerberg. People ha sempre venduto più di Time Magazine»: semplicemente ci ritroviamo in ciò che «più ci ricorda noi stessi».