Desktop is the new paper: il futuro è mobile

Questa settimana in Roundup: l'ascesa inarrestabile del settore mobile e l'uso di applicazioni come WhatsApp per raggiungere nuovi lettori; le più recenti startup editoriali badano più al come fare giornalismo piuttosto che al cosa, secondo Alexis Madrigal; Medium rilancia Matter con un'intervista a Jonah Peretti di BuzzFeed da 23mila parole - che fortunatamente vi abbiamo riassunto.

di Vincenzo Marino

Desktop is the new paper

Immagine via bustr.me

Ci sono buone probabilità che stiate leggendo questo post dal vostro telefono: nel mondo ci sono 5,3 miliardi di utenti telefonici (10 volte più dei tablet) e di questi il 30% possiede uno smartphone. Il settore mobile, al momento, occupa il 25% delle navigazioni mondiali (l’anno scorso era il 14%) e rappresenta (dati del 2013, analizzati questa settimana da Lewis DVorkin per Forbes) l’11% della spesa pubblicitaria digitale mondiale, in crescita del 47%. Con dati del genere le antenne di critici e specialisti dei media non possono che essere puntate sul futuro mobile, come testimoniato dall’attenzione che il settore continua a esercitare su meeting, studi e paper accademici. Questa settimana, per esempio, buona parte del Thougth Leader Summit dell’American Press Institute (ne scrive Jeff Sonderman) si è concentrato sull’ascesa delle mobile news, ricavando un report di nove punti, tutti sul tema, che vanno dal come si presentano le notizie per i telefoni (e cosa cambia nel lavoro di un giornalista) a come si cattura l’attenzione di un pubblico “telefonico”: combinare vecchio e nuovo non basta (Wolfgang Bretschko, via Guardian), c'è bisogni di partire da zero e puntare decisamente sul futuro.

Grafico via Reuters Institute

Il Digital News Report del Reuters Institute, sempre di questi giorni, non fa eccezione: all’ascesa dei mobile device dedica un intero capitolo, partendo dal dato riferito alla percentuale di utenti che ne fa un utilizzo informativo (37, in crescita di 6 punti). L’esempio della Danimarca, nei numeri, è indicativo: è il paese in cui il trend è più spiccato, ed è quindi possibile prenderlo come caso di specie da analizzare per intravedere uno scenario futuro verosimile. Dal modello danese si evince che gli smartphone da soli - malgrado una sostanziale fruizione multi-piattaforma delle notizie - cominciano a soddisfare largamente buona parte della necessità dei lettori di arrivare alle news, attingendo però da un numero di fonti minore rispetto alla navigazione desktop: accogliere troppi canali informativi, su uno strumento così piccolo e tendenzialmente mono-tasking, non è cosa semplice - anche perché su un telefono l’informazione deve “competere” con tutti gli altri canali di comunicazione. Il dato delle messenger app in questo senso è determinante: un miliardo di persone in cinque anni si è iscritto a un servizio di messaggistica, aprendo un territorio nuovo e inesplorato per l’industria dell’informazione.

WhatsApp e i suoi fratelli: non il come ma il cosa

Immagine via Digital-First Cat

Del possibile utilizzo di WhatsApp come dispositivo informativo vi avevamo già scritto in febbraio, quando Facebook ne aveva rilevato la società per 19 miliardi. Questa settimana Caroline O’Donovan su NiemanLab va alla scoperta dei primi esperimenti in tal senso: BBC India, per esempio, ha cominciato a utilizzare WhatsApp proprio qualche settimana fa, durante le elezioni, per dare aggiornamenti e raggiungere i lettori lì dove si trovano fornendo mappe, update, tabelle, titoli. È vero che è piuttosto difficile capire quanto poi quelle informazioni circolino una volta inviate nel fiume carsico delle conversazioni bidirezionali, e che le potenzialità “virali” di una notizia vengono notevolmente ridotte, ma come fa notare Trushar Barot, responsabile del progetto per BBC Global, «su WhatsApp hai il 100% di possibilità di colpire l’attenzione dei lettori, perché finisce nei loro telefoni e viene fuori sotto forma di popup, che generalmente leggono pochi secondi - o minuti - dopo che l’hai mandato». Difficile anche capire se si possa adeguare il contenuto allo strumento, o scardinare la logica one-to-one, ma il focus sul come - piuttosto che sul cosa - appare un’ossessione piuttosto ricorrente nel dibattito e nelle novità dell’editoria digitale recente.

Proprio sulla prevalenza dei “mezzi” (e dei modi) sui “fini” (il contenuto, i temi) è intervenuto questa settimana Alexis Madrigal su The Atlantic, che non fa a meno di notare quanto le ultime startup mediatiche si siano prepotentemente concentrate sull’aspetto metodologico, piuttosto che sull’essenza stessa dei contenuti. “Laboratori” come Circa (in un certo senso molto simile a WhatsApp: personale, mobile, one-to-one, con aggiornamenti e popup), Vox.com, Matter, FiveThirtyEight sembrano più in grado di spiegare “come” fanno le cose, piuttosto che farle - dal mobile first al cosiddetto explanatory journalism (di cui abbiamo parlato con Felix Salmon a #ijf14), dalla dataviz al feticismo da piattaforma. A dominare, continua Madrigal, è «il metodo», non «l’area» che s’intende coprire. E malgrado siano tutti progetti encomiabili (ha poi dovuto precisare su Twitter) ed esistano eccezioni in senso opposto (Recode, First Look), questa tendenza sembra essere quasi anti-giornalistica, dato che ogni iniziativa editoriale, da sempre, ha necessariamente bisogno di parlare «about something, either a topic (Vogue, Wired, Forbes) or a place (Texas Monthly, New York)». Suona quasi assurdo scriverne, conclude Madrigal, «but that’s we’re at».

«All content deserves to go viral»

Imagine via Vox.com

Restando in tema, questa settimana si è parlato molto di Medium, la cosa (è difficile definirla dato che il dibattito, appunto, è ancora aperto) che permette di scrivere e leggere articoli di media lunghezza, di amatori e professionisti scelti con piglio editoriale. In questi giorni lo stesso Ev Williams, il fondatore, ha voluto lanciarsi e dire che sì, «we are a publisher», e che quindi producono contenuti come veri e propri editori anche se permettono l’accesso libero e gratuito alla piattaforma. La tardiva ammissione - costata nei mesi scorsi anche la creazione dell’improbabile neologismo platisher (platform + publisher) - cade proprio in concomitanza del lancio - o rilancio - di Matter, la startup editoriale di cui avevamo parlato due anni fa (produzione di pezzi one shot, da comprare a cadenza periodica) che vuole essere sostanzialmente la versione magazine e longform di Medium.

Primo pezzo a comparire sul nuovo Matter è l’intervista-fiume di Felix Salmon al CEO di BuzzFeed Jonah Peretti, un articolone da 23mila parole che si legge in 91 minuti netti (qualcuno ha anche azzardato un “Alla faccia del giornalismo post-text”, riferendosi al pezzo nel quale Salmon spiegava le ragioni del suo sì a Fusion e vagheggiava una produzione capace di andare oltre quella testuale). L’intervista è stata riassunta da Mathew Ingram su Gigaom e Caroline O’Donovan su NiemanLab, e si basa su alcuni punti: il passato di Peretti come ricercatore sociologico e creatore di contenuti virali a sua insaputa, l’esperienza all’Huffington Post, che ha aiutato a lanciare, la creazione di BuzzFeed, il successivo cambio di rotta e la scienza della viralità, di cui la sua creatura è esemplare riuscitissimo. Il trucco – spiega - è stato amplificare ciò che era già virale, ai primi tempi, per poi inserirsi nelle diverse nicchie culturali di Internet adottando un approccio mai saccente, parlando ai lettori col loro linguaggio e il loro «entusiasmo», e preservandoli da contenuti irritanti o inaccessibili, che facessero sentire l’utente inferiore e/o superiore alla media. In questo senso, l’adesione alla teoria sull’identificazione dei fenomeni e degli attori della cultura pop come strumento di perpetuazione del modello capitalistico - come da paper giovanile sulle teorie marxiste dello stesso Peretti pubblicato da Vox qualche settimana fa - appare quasi immediata.

Dalle parti di The Onion, intanto, è nato Clickhole: l’idea è proprio riprendere lo schema di siti come BuzzFeed e Upworthy (titoli catchy, contenuti ad alta condivisibilità - e bassa lettura) e farne una parodia, producendo materiale privo di senso creato al solo scopo di riprodurre e deridere queste modalità editoriali al motto di «All web content deserves to go viral». Il modo migliore per capire di cosa stiamo parlando è aprire questo post.