Questa settimana in RoundUp: davvero Internet ha rovinato per sempre il giornalismo? Il dibattito è aperto. Intanto una studentessa di vent'anni ha creato una pagina Facebook di battute sulla scienza che col tempo ha raggiunto 18 milioni di fan (più del doppio del NYT), è diventato un sito di divulgazione scientifica e in autunno arriverà in tv.
«The web is bad for writers»
Il Daily Mail spiega che iCloud non è una vera nuvola - via The Guardian
Sul numero di Agosto di Wired US (dedicato alla “rivoluzione mobile”) è uscito un articolo di Franke Rose dal titolo «Come gli smartphone hanno dato il via a un’epoca d’oro per il giornalismo». Il testo analizza molti degli esperimenti e delle recenti tendenze in fatto d’informazione mobile, segnalandolo come il principale settore dal quale far ripartire un’industria che sembrava quasi arrendersi all’estinzione: dalle inchieste ai listicle, continua il pezzo, quella mobile non è più una lettura minore, forzatamente piccola e scomoda, secondaria. L'articolo ha stimolato un dibattito che ha portato (nuovamente) a discorrere sul futuro della professione e sull’incidenza che Internet e la tecnologia portatile hanno avuto, in positivo o negativo, sul giornalismo. Andrew Leonard su Salon si dice sicuro che un giornalismo in qualche modo riuscirà a sopravvivere - la domanda d’informazione sarà sempre alta, e a questa, sul mercato, generalmente si trova sempre una risposta - ma non sa esattamente dire quale.
Il pessimismo deriva infatti dalla condizione professionale di chi lavora nel settore: ciò che potrebbe essere considerata «golden age» per il lettore - che può leggere e scrivere tutto, gratis, ovunque e su qualsiasi mezzo - non sembra affatto somigliare all’eden per i cosiddetti “operatori”. Poche le sicurezze lavorative e economiche («The web is bad for writers», ha sintetizzato l’editore di Harper Magazine John MacArthur sul Times), prospettive incerte e bassa longevità dei nuovi progetti sono ormai normalità, tanto che anche quelli riconosciuti come modelli vincenti rischiano di rappresentare non più di un’eccezione: l’Huffington Post, cita Leonard, ha dovuto ricorrere alle donazioni per coprire le vicende di Ferguson, e persino NYTnow, una nuova app del New York Times (non solo una versione mobile del sito, ma un modo diverso di concepire lo stream delle notizie), sembra non rispondere alle aspettative della casa madre - che tra l’altro conta solo 32 mila nuovi abbonati digitali nel secondo quarto di quest’anno. Chiamatelo pure dinosauro, spiega Leonard, ma «non credo si possa parlare “golden age of journalism” in un mondo nel quale soffre persino il Times».
"Ai miei tempi non c’era il clickbait"
Gli fa eco David Sessions su PatrolMag: Internet ha tolto lavoro a molti nell’industria della stampa, ha inventato nuove posizioni e prodotti, ha trasformato processi lavorativi, ma non è ancora chiaro se sia stato un “buon affare”: di certo c’è che le connessioni a banda larga hanno cambiato ogni ambito della nostra vita, compreso quell’impianto di credenze, convenzioni e simboli che nell'industria dei media hanno resistito per anni, e che sono crollate di colpo. Siti come «New York Times e ViralNova (ne avevamo parlato qui, nda) appaiono entrambe allo stesso modo sulla tua pagina Facebook», spiega Sessions (peraltro nei giorni scorsi Facebook ha spiegato quali saranno i nuovi paramentri in base ai quali sceglierà quali contenuti far comparire in modo più ricorrente nelle homepage), condizionando scelte e letture degli utenti, che cominceranno a distinguere sempre meno la differenza fra news outlet credibili, dilettanti, e notizie false (qui trovate una ricerca accademica sull’espansione sui social delle cosiddette bufale). Tutti possono scrivere di tutto, ogni testata si sente in dovere di avere la sua versione dei fatti, anche se non necessaria (un’esasperazione giornalistica che John Herrman su The Awl questa settiamana definisce una sorta di sindrome da «we should have something on this», di cui avevamo già parlato di recente e che è diventata nuovamente oggetto di dibattito), e l’esito d’ogni sforzo giornalistico è affidato alla fine a società esterne e onnivore come Facebook e Google, che rischiano di inficiare un buon lavoro e appiattirlo a quello altrui. «Non è colpa di Internet» spiega ancora l’autore, ma le conseguenze sociali sono enormi e ancora da scoprire, in un contesto in cui la qualità deve competere ad armi pari con tutti gli altri contenuti e giocare sullo stesso terreno (quello del clickbait, per esempio).
Uno degli spettri spesso vagheggiati nelle analisi dei critici dell’informazione online è infatti quello del clickbait, il titolo o l’argomento “sensazionale” che vorrebbe catturare l’attenzione di chi legge (qui trovate un recente studio su media USA e francesi condotto dalla studiosa Angèle Christin). Su io9 Annalee Nevitz ha cercato di tracciare una storia del genere: stando alla sua ricerca, il contenuto cattura-lettori sarebbe sempre esistito sotto varie forme, dal titolo sensazionalistico alla pagina dei fumetti, così come le critiche a queste pratiche - e più in generale ai mezzi offerti dalla modernità - hanno sempre trovato casa (qui un’esemplare vignetà d’epoca) fino all’inevitabile ammonimento contro il telegrafo ospitato dal NYT a metà ‘800. In un paio di post su Gigaom Mathew Ingram cerca di rispondere alle critiche e a tornare sull’argomento “età dell’oro”: il declino dell’industria è evidente (peraltro basta dare un’occhiata a questo post di Frederic Filloux sugli ultimi 10 anni di mercato dei media) sebbene il giornalismo non sia solo “giornali”, ma un insieme di idee, intuizioni, servizi e proposte che stanno cercando la loro strada vincente in un periodo di transizione. Non saranno i tempi migliori per il giornalismo, continua Ingram, ma neppure i peggiori: lamentarsi dei digital native e dei loro contenuti (da BuzzFeed a Vice a Gawker) è come prendersela con gli oroscopi, non resta che aspettare che l’evoluzione si compia e cercare di esserne protagonisti. «Journalism will be just fine, even if print-based newspapers and magazines are not».
Inventarsi il giornalismo: il caso di I fucking love science
Immagine via IFLS
Un esempio di come il giornalismo possa essere tale, a prescindere dalla piattaforma che lo ospita e dalle intenzioni di chi ci lavora, proviene dalla storia di copertina di settembre della Columbia Journalism Review. In un lungo profilo dal titolo «Do you know Elise Andrew?», Alexis Sobel Fitts racconta il caso di Elise - appunto -, studentessa 22enne che si è inventata una pagina Facebook che è diventata in pochi mesi un media brand riconosciuto e profittevole, un punto di riferimento per amanti del settore e non - I fucking love science. Nata nel marzo del 2012 come pagina dedicata a battute e meme a tema scientifico, IFLS attrae a oggi circa 18 milioni di fan, quasi sette volte più di Popular Science e Discover (che si fermano a 2.7 milioni), più del doppio della pagina Facebook del New York Times (poco più di 8 milioni). Dalle sole immagini, col tempo Elise passa alla condivisione di articoli, poi alla stesura di una sorta di rassegna settimanale sull’universo scientifico, mantenendo lo stile pop che già la F* word del nome contraddistingue: la forza di IFLS, stando all’articolo della Columbia, è l’aver costruito una comunità divertita e coesa, senza troll, alla quale la stessa Andrew partecipa spesso in prima persona (paradigmatica la reazione dei fan quando hanno scoperto che dietro a tutto questo non c’era una redazione di data journalist, topi da laboratorio e esperti di algoritmi social, ma un’universitaria appena ventenne).
Un caso di studio del tutto peculiare, considerando la natura domestica e quasi incidentale dell’esperimento. L’autore del profilo non fa a meno di sottolineare questo aspetto, comparandolo allo scenario mediatico degli ultimi tempi: «Diversamente da altri visionari celebrati di recente come brand “self-made” del giornalismo digitale - e penso proprio a voi, Ezra Klein e Nate Silver - Andrew ha costruito il proprio brand da sola». «Klein e Silver sono considerati un nuovo tipo di giornalista, imprenditori dei nuovi media - continua -, ma potevano contare entrambi su outlet tradizionali che ne hanno influenzato il loro appeal e accresciuto la loro credibilità». Elise Andrew è invece un nuovo prototipo di superstar mediatica che si è fatta da sé: non è chiaro se per I Fucking Love Science si possa parlare di giornalismo vero e proprio, conclude l’autore, ma di certo adesso parliamo di una pagina da milioni e milioni di like, con un sito (nato a novembre 2013) e una propria striscia televisiva per Science Channel (prevista per questo autunno), che in agosto ha cercato di fare informazione corretta e frenare gli allarmismi sull’espansione del virus ebola. Qualcosa che in fin dei conti ricorda ciò che in genere definiamo come “giornalismo”.