Questa settimana in RoundUp: il New York Times è costretto a tagliare personale e nuovi progetti. Cosa vuol dire per i media - digitali e non? Forse che essere un celebre brand storico non basta; o forse che paywall e native advertising possono ancora poco nel medio-lungo periodo; o ancora, che è necessario aprirsi al dialogo e "monetizzare" la relazione coi lettori (a proposito: che ne è di De Correspondent, dopo un anno?).
Quando a tagliare è il New York Times
Con una nota inviata alla redazione dall’Executive Editor Dean Baquet, il New York Times ha annunciato che taglierà 100 dei suoi dipendenti (su 1330) e ritirerà dal mercato l’applicazione NYT Opinion, lanciata solo pochi mesi fa. Si tratta certamente della notizia più rilevante della settimana nel mondo dei media: il Times è da sempre uno degli esempi al quale i giornali del mondo guardano - sia dal punto di vista giornalistico che da quello commerciale - nonché la testata che più di tutte negli ultimi quattro anni si è spesa come portabandiera del sistema paywall - che 'costringe' i lettori alla sottoscrizione di un abbonamento per garantirsi la lettura completa dei contenuti del sito. A portare a questi provvedimenti inaspettati sarebbe stata la crescita troppo lenta delle entrate, causate da perdite sugli abbonamenti cartacei, nuovi prodotti che “non stanno raggiungendo il successo sperato” e un mercato pubblicitario problematico «sebbene ci siano segnali promettenti». Uno stallo pericoloso che ha costretto a tagli drastici e - secondo molti - inevitabili, sebbene Ken Doctor faccia notare quanto, in un panorama nel quale tutte le redazioni diventano sempre meno numerose, il NYT abbia comunque uno staff più numeroso (+3,4%) rispetto a tre anni fa.
Enough with the @nytimes schadenfreude. If none of your products fail, then you're not innovating enough. Good on them for taking risks.
— Vivian Schiller (@vivian) 1 Ottobre 2014
Proprio nell’ottica del contenuto a pagamento, disegnato e parcellizzato per diverse nicchie, la testata aveva deciso di lanciare negli ultimi mesi alcune app (due su tutte Opinion e NYT Now) nella speranza di raggiungere lettori non ancora disposti ad abbracciare completamente i metodi di abbonamento standard, e rilanciarsi nel settore mobile. NYT Opinion non avrebbe però mantenuto le aspettative in termini di sottoscrizioni ed entrate, e tenerla in vita sarebbe stato giudicato controproducente. L’esperimento è durato sei mesi (verrà ritirata a fine ottobre) e forniva agli utenti un quadro giornaliero degli articoli d’opinione di alcune firme note della testata - Joseph Lichterman e Justin Ellis spiegano quali potrebbero essere state le cause di questo risultato, tra le quali il fatto che gli stessi utenti avrebbero avuto una scarsa propensione a utilizzare l’applicazione una volta scaricata (come dire: il brand non basta).
Secondo John Hermann di The Awl si sarebbe trattato infatti di un fallimento annunciato, considerando che difficilmente, «contro l’enorme quantità di contenuti gratis sul web» (Ken Doctor), qualcuno sarebbe ancora disposto a pagare per leggere delle opinioni - che peraltro il programma Times Select, nel 2007, già prevedeva con modalità affini e stesse firme. Sorte diversa per NYT Now (di cui avevamo parlato qui) che però, malgrado i risultati soddisfacenti dei primi mesi, parrebbe comunque aver incontrato la domanda di un pubblico diverso da quello che il Times aveva precedentemente immaginato per l'app - non giovane e mobile-friendly, ma più anziano e alla ricerca di una versione 'light' ed economicamente meno impegnativa del giornale (una sorta di paywall 2.0, di cui parla Ryan Chittum sulla Columbia Journalism Reviw).
«It’s adapt or die»
Che il NYT avesse bisogno di un cambio di passo digitale lo si poteva leggere sin dal cosiddetto “Innovation report” di qualche mese fa, e nonostante alcuni commentatori continuino a pensare a un futuro più solido per gli storici brand giornalistici (rispetto ai rampanti quanto ‘fragili’ digital native), appare ovvio come il «magic bullet» citato da Baquet nella nota (ossia l'arma fine-di-mondo in grado di garantire un avvenire finalmente profittevole al settore) sia ancora di difficile individuazione. Lo stesso futuro del Washington Post, più volte indicato come esempio di immortale appetibilità dei vecchi media sui nuovi (in questo caso Jeff Bezos), sembrerebbe ancora piuttosto fumoso: il CEO di Amazon ha rilevato la testata per 250 milioni di dollari da ormai più di un anno, ma sono in molti - interrogati da Dylan Byers su Politico questa settimana - a lamentare ancora l’assenza di un’iniziativa forte. «Ho come il vago sospetto che non consegneremo il Washington Post via drone a breve», spiega Martin Baron, Executive Editor della testata, come a voler dire che evidentemente le priorità di Bezos sembrano concentrarsi su altro. In settembre, per di più, il Post ha annunciato l’intenzione di voler eliminare benefit pensionistici e sanitari per i lavoratori non sindacalizzati della testata.
«It’s adapt or die», spiegava due settimane fa il direttore del Financial Times Lionel Barber. Un precetto che al Times, stando a Ken Doctor, sarebbe stato declinato con quattro parole chiave: «digital, nicchia, mobile, a pagamento», con la recente aggiunta di native advertising, settore in crescita ma ancora poco affidabile. Secondo i dati riportati da Joe Pompeo su Capital New York, un’inserzione native può arrivare a centinaia di migliaia di visualizzazioni, numeri che rischiano però di non giustificare gli esborsi dei potenziali inserzionisti, e comunque non sufficienti a coprire le altre perdite. Un NYT solo digitale, immagina per esempio Edmund Lee su ReCode, vanterebbe un business di 312 milioni (il 20% del suo attuale fatturato), di cui più della metà ricavato dal mercato pubblicitario - a conti fatti, una redazione che non potrebbe permettersi più di 200 giornalisti. Se per Charlie Becket appare indispensabile trovare un modo per sopravvivere e adattare contenuti giornalistici in un contesto inedito dominato da realtà commerciali del tutto nuove come Google e Facebook, secondo Mathew Ingram per il Times sarebbe necessario rivedere la propria strategia digital e spostare l’attenzione dai contenuti, e dalle piattaforme, al lettore: non continuare a offrire prodotti pensati per fette di pubblico ancora non conquistate, cucendogli addosso vari metodi di pagamento, ma enfatizzando il concetto di “relazione”, ascoltare la domanda e costringere le proprie firme-brand a mettersi in gioco, diventando ambasciatori della testata stessa («monetize the relationship»).
«Monetize the relationship»
Argomento che dà la possibilità a Ingram di richiamare un altro dei temi più discussi di questa settimana (che peraltro coinvolge ancora il New York Times). Tutto parte da un articolo di Charlie Warzel su BuzzFeed, nel quale l’autore non fa a meno di notare quanto larga parte dello staff del Times sembra non avere alcun interesse nei confronti di Twitter. Ingram, appunto, cerca di ragionare su questo dato simbolico, chiedendosi se sia irrilevante o meno: l’assenza dai social network non rappresenterebbe solo di un rifiuto verso un strumento, quanto l’indice di una bassa disponibilità al confronto, a ‘sporcarsi le mani’ nella comunità online, e in generale a capire che la discussione non è da considerare tempo sottratto al lavoro giornalistico, ma una sua parte integrante . «Non si tratta solo di ascoltare» spiega l’autore di Gigaom, ma anche di rispondere, essere aperti al dialogo pubblico in maniera trasparente. Abbracciare un nuovo tipo di giornalismo che probabilmente, continua l'autore, sarà l'unico in grado di sopravvivere.
Engaging with readers and the only kind of journalism that may survive | @mathewi pic.twitter.com/gnd9ggDXEV — journalism festival (@journalismfest) 1 Ottobre 2014
Pensare al lettore come a un attore non più passivo del processo giornalistico è una delle idee al centro di un progetto che abbiamo seguito negli ultimi mesi (ne abbiamo parlato qui) e ascoltato anche a Perugia nell’ultima edizione del Festiva Internazionale del Giornalismo (qui il video). Si tratta di De Correspondent, è una testata online olandese finanziata via crowdfunding dai propri utenti (definiti membri, e coinvolti a più livelli) e ha ormai superato il primo anno di attività. Su Medium uno dei fondatori Ernst-Jan Pfauth cerca di tracciare un bilancio di questi primi dodici mesi: 11 mila dei quasi 19 mila finanziatori iniziali avrebbero già confermato la propria sottoscrizione (“membership”) alla testata, un successo che secondo Pfauth deriverebbe non solo dal lavoro proposto in questi mesi (giornalismo investigativo accurato e di qualità) ma dai metodi attraverso i quali hanno deciso di offrire il prodotto: la totale trasparenza economica e editoriale (il giornale ha pubblicato una sorta di rendiconto finanziario per spiegare come vengono spesi i soldi) e il coinvolgimento dei membri nel processo di costruzione delle notizie e di condivisione, anche attraverso un’analisi attenta dei fan di Facebook e dell’impatto che la testata ha avuto, finora, nel giornalismo e nella società olandese.