Questa settimana in RoundUp: Facebook diventa sempre più necessario nella distribuzione dei contenuti, e il dibattito sul ruolo del social network nel giornalismo continua. Ma cosa succede se si regola tutto il proprio lavoro in base ai meccanismi di una piattaforma esterna, che può cessare di esistere o cambiare le regole del gioco da un momento all'altro? Pilhofer del Guardian, intanto, dice che il declino della stampa è un "dato assoluto" e sarà improvviso e violento.
Come Facebook sta cambiando il giornalismo
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Qual è il ruolo di Facebook nel giornalismo di oggi? Il dibattito è ricorrente negli ultimi mesi, ed è stato rinfocolato dallo studio del Pew Research Center di cui abbiamo parlato la settimana scorsa (in sintesi: l’incidenza del social network nella dieta mediatica dei lettori, e nei loro giudizi sull’attualità, sarebbe molto alta). Il tema è arrivato fino a questa settimana, sviscerato da più parti e arricchito da uno degli articoli più letti e commentati di questi giorni: si tratta dell’intervista di Ravi Somaiya del New York Times a Greg Marra, il 26enne ingegnere di Facebook tra i “responsabili” dell’algoritmo in base al quale gli utenti trovano le notizie sul proprio news feed (generalmente ordinato in base al comportamento degli iscritti e non in modo cronologico come per Twitter - finora) e che, indirettamente o meno, influenzano il rapporto degli utenti con le notizie e il numero di letture e condivisioni dei contenuti editoriali.
Stando a una ricerca di SimpleReach, infatti, una visualizzazione su cinque giunta su un sito di news arriverebbe da Facebook - e i numeri continuerebbero a crescere. Non stupisce quindi che gli editori guardino al social di Zuckerberg con una certa attenzione, cercando di trarne il meglio possibile e di presidiare un territorio cruciale - «Nessuno digiterà più washingtonpost.com», dice Cory Haik, senior editor per le digital news al Post, ma più facilmente arriverà a informarsi provenendo da altre piattaforme. Giocare stando alle regole di Facebook diventa quasi essenziale, anche se Marra cerca di distribuire queste responsabilità su più livelli: «Siete voi stessi quelli che decidono cosa v’interessa», spiega alla giornalista del NYT, come a voler dire che il loro compito sarebbe offrire una piattaforma (da 1,3 miliardi di utenti) e lasciare che i contenuti circolino in base alle preferenze di chi la abita.
La verità è che una minima variazione dei codici che regolano queste ‘connessioni’ fra like, post e utenti possono distruggere una strategia editoriale e social, o avvantaggiarne un’altra - esemplari sono i casi di Upworthy e Districtify, citati dall’autrice (ne avevamo parlato qui), che da fine 2013 hanno visto crollare i loro risultati per un aggiornamento nell’algoritmo che avrebbe svantaggiato i contenuti virali di bassa qualità.
Fidarsi è bene
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Una lettura che però non convince il professore della NYU Jay Rosen. Chiunque lavori su questi codici, spiega, sa che non può essere così semplice: se fossi editor del mio stesso news feed, si chiede ironicamente Rosen, allora “dove sarebbero i miei comandi?”. Il punto della questione è l’appalto di buona parte del processo di distribuzione giornalistica a piattaforme “terze”, ma cosa succede se si fonda tutta la propria ricerca, i propri sforzi, su un servizio esterno che decide legittimamente di fare i propri interessi? «Per i publisher Facebook è una specie di cane che ti corre incontro nel parco. È difficile dire se voglia giocare con te o stia venendo a sbranarti», esordisce il media critic David Carr sempre sul Times. E basta una minima variazione nei sistemi di distribuzione per cambiare nuovamente le carte in tavola: nel 2012, per esempio, Guardian e Washington Post sperimentarono le pagine “Social Reader”, che permettevano una lettura integrata su Facebook ma che rendeva pubbliche le preferenze di chi ne usufruiva (facendo sì che tutti gli amici di un utente sapessero cosa quell’utente stesse leggendo). Un ‘effetto collaterale’ che provocò più di qualche mugugno tra gli iscritti e portò Facebook a correggere di nuovo il tiro e a far diventare svantaggioso un approccio del genere. I “Social Reader” morirono presto, replicando lo stesso meccanismo che si era già visto con Google: sforzi e denaro speso per migliorare l’indicizzazione sul motore di ricerca - basata sugli algoritmi ‘del momento’ - che pagarono solo temporaneamente, fino alla costruzione di un nuovo codice.
Carr stesso ricorda un incontro con Sergey Brin di Google nel quale l’azienda di Montan View si offriva di collaborare con le testate in termini di vantaggi commerciali e tecnici. «Suona familiare?», continua l’esperto: il meccanismo infatti è simile a quello che vediamo oggi con Facebook, e che porta molti news outlet ad ‘accettare’ la supremazia di Facebook in fatto di distribuzione - soprattutto su mobile - pubblicando i loro contenuti direttamente sul social network, senza richiami al sito principale (esperimenti del genere continuano a essere numerosi: foto, video o altro senza link diretto alla “casa madre”). Il motivo è semplice: «Non possono permettersi di star lontano da dove si trova il pubblico» - spiega Lucia Moses su Digiday - e da dove la pubblicità fa scorrere i suoi dollari. Il senso è offrire contenuti «che non avrebbero avuto la stessa esposizione se relegati sui siti» spiega Ashley Codianni, che per CNN sta curando une serie di video web-only. Ryan Chittum, sulla Columbia Journalism Review, fa il punto del dibattito e avverte: è troppo rischioso costruire modelli su company come Facebook e Google, perché alla fine - come conclude Carr - se quel cane che ti corre incontro è molto grande «potrebbe leccarti fino alla morte».
«Il declino della stampa è un dato assoluto»
«I social sono una benedizione per noi» ha spiegato il responsabile delle strategie digitali di Guardian News & Media Wolfgang Blau presentando il nuovo sito della testata. «Ma poi una volta che qualcuno ci ha scoperti [sui social] cerchiamo di dargli modo di farlo tornare a visitarci più spesso». L’allargamento della propria base di lettori infatti è uno dei più grossi vantaggi che i giornali digitali, in potenza, hanno sulle testate cartacee: col crescere dell’importanza di piattaforme di questo tipo - continua l’executive editor per la parte digitale Guardian Aron Pilhofer su TheMediaBriefing - giornali e publisher si sono trovati di fronte a un doppio effetto: la disintermediazione di pubblicità e contenuti - dominata, come visto, da Facebook - e la frammentazione dell’audience. Proprio questa frammentazione è sia «sfida che opportunità per i giornali», che hanno sempre pensato alla propria readership come a un blocco, in genere per la mancanza di dati sui diversi tipi di lettori che in realtà li leggono. La rivoluzione - se così ancora si può chiamare, alle soglie del 2015 - non è solo tecnica o strumentale, per Pilhofer bisogna ripensare a come raccontare storie e produrre contenuti che si avvicinino il più possibile a ciò che incontra la disposizione a leggere dei lettori (da leggere anche «A scarce commodity: trustworthy and relevant information» di Thomas E. Patterson su The Conversation).
Come fare? Secondo l’executive editor è fondamentale spingere forte sulla produzione “data driven”, basata sull’analisi dei dati dei propri lettori, così da raggiungerli meglio e offrire contenuti che davvero contano per loro. «Invece di fare le cose come le facciamo ora, che è una cosa tipo ‘pubblica e prega’»- continua - bisognerebbe far fondo «all’enorme mole di dati». Il problema, però, «è che non c’è nessuno nelle redazioni è specializzato su questo»: c’è molta riluttanza, ammette Pilhofer, poiché in tanti non hanno ancora capito che ci sono poche altre alternative. Il declino per la stampa «non è solo inevitabile», ammonisce, «ma arriverà prima di quanto si pensi». Non è un’ipotesi ancora fumosa ma «un dato assoluto: le entrate pubblicitarie non torneranno indietro», così come gli indici ormai negativi sulla circolazione cartacea di tutte le testate. Mai nella storia il declino è continuato tanto a lungo da digradare dolcemente verso lo zero: la crisi è profonda, irreversibile e naturale, e lo shift totale verso il digitale deve essere portato a termine prima che sia troppo tardi.