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Il Messico non è il posto migliore nel quale fare il giornalista. Pur non essendo governato da una sanguinaria dittatura, si trova al 148esimo posto - su 180 - nell’indice del 2015 sulla libertà di stampa elaborato da Reporters Without Borders. E pur non essendo percorso da un conflitto armato, è uno dei posti più pericolosi al mondo in cui lavorare nell’industria mediatica: nel 2014, il Messico è stato il paese americano con più morti legate all’esercizio giornalistico (3 reporter e una blogger), e sin dal 2000 circa 90 giornalisti hanno perso la vita.
Violenze, rapimenti, aggressioni, distruzione di materiale. La più grave minaccia per il giornalismo messicano arriva dal buco nero dell’illegalità e delle collusioni: i rapporti tra crimine organizzato, strutture governative e politici sono un macigno inscalfibile, reso ancora più insormontabile dall’ostruzione del sistema investigativo e giudiziario del paese.
Secondo la Comisión Nacional de los Derechos Humanos, l’89% dei crimini contro giornalisti rimane impunito, in un contesto nel quale non è molto difficile vedere inchieste di polizia e magistratura paralizzarsi e poi morire a causa di mastodontiche procedure burocratiche: stando ai dati elaborati dal Committee to Protect Journalists, l’indice d’impunità degli atti perpetrati nei confronti degli operatori dei media piazza il Messico al settimo posto nel mondo, sconfortante primato migliorato solo da Iraq, Somalia, Filippine, Sri Lanka, Siria e Afghanistan.
Si tratta di una pericolosa mancanza d’efficacia e protezione che rischia di 'autorizzare' in qualche modo le aggresisoni alla libertà di stampa, mettendo i giornalisti «davanti ad un pericolo ancora più grande», come spiegava Dario Ramirez, direttore di Article 19 - un’organizzazione internazionale che lavora a salvaguardia della libertà d’espressione, monitorando e documentando minacce e attacchi contro il lavoro giornalistico.
Non stupisce che in questo scenario molti reporter siano stati costretti a fuggire dal proprio paese. Usa, Canada, Europa: sono più di una dozzina i giornalisti costretti a rifugiarsi all’estero, «tutti minacciati in modo diverso e per diverse ragioni», spiegava Balbina Flores Martìnez, corrispondente dal Messico per Reporters Without Borders e lei stessa vittima di intimidazioni. «Alcuni per le informazioni che hanno già pubblicato, altri ancora per le cose sulle quali stavano investigando».
Anabel Hernandez, per esempio, ha giurato a se stessa che non avrebbe mai lasciato il proprio paese, nonostante le pesanti intimidazioni ricevute. Una tra le giornaliste investigative messicane più note, Hernandez ha scritto spesso di narcotraffico e abusi di potere sulle testate Reporte Indigo, Proceso, La Reforma, El Universal, lavoro che l'ha costretta a vivere sotto scorta per anni, 24 ore al giorno, e che l'ha portata a scoprire il caso poi passato alle cronache come "Toallagate" (un'inchiesta del 2001 sull'uso improprio di denaro da parte dell'allora presidente Fox, che generò un enorme scandalo politico), grazie al quale ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali.
«La questione di fondo in Messico è che la stragrande maggioranza dei media sopravvive per i dollari forniti dal governo, non grazie alle copie che vendono giornalmente», spiegava Anabel Hernandez su Cosmopolitan. «Il risultato è che molte testate sono più fedeli al governo che ai loro lettori». L’influenza della politica nel giornalismo infatti è un altro dei bug che compromette la libera informazione messicana.
Lo sa bene Marta Duran, giornalista e docente di giornalismo presso l’Universidad del Claustro de Sor Juana, e di giornalismo politico alla Escuela de Periodismo Carlos Septién García. Esperta di sociologia e collaboratrice per le testate Proceso, Excelsior, La Jornada, è profonda conoscitrice dei problemi del Messico contemporaneo, di cui ha parlato in tutta la sua produzione editoriale - è autrice di 8 libri, tra i quali anche “Io, Marcos”, edito in Italia da Feltrinelli.
Con Anabel Hernandez, sarà protagonista del panel “Ayotzinapa e non solo. Dissenso, repressione e libertà di stampa in Messico” al Festival Internazionale del Giornalismo, insieme alla giornalista di Radio Rai Cecilia Rinaldini e a Ivan Baez, responsabile del Programa de Protección della sede messicana e centroamericana di Article 19. Laurea in legge e relatore in conferenze nazionali e internazionali, Baez, è stato formatore della Suprema Corte di Giustizia Nazionale e della Commissione per i Diritti Umani di Città del Messico, e ha scritto spesso di diritti umani e difesa dei lavoratori.
Sabato 18 aprile, dalle 17 alle 18.30, in Sala del Dottorato.