«Tra i giornalisti, la verità universalmente riconosciuta è che le cattive notizie occupano più spazio delle buone notizie», esordiva il giornalista turco Yavuz Baydar il 20 marzo scorso sul Guardian. «In Turchia, un'altra verità riconosciuta e ancora più deprimente è che gran parte delle cattive notizie provengono proprio dall’industria dei media».
In queste settimane il Parlamento turco sta discutendo un pacchetto di riforme della sicurezza interna promosso dal governo. Si tratta di un documento di 12.000 parole che rischia di minare fortemente le libertà civili dei turchi: dal terrorismo alla lotta al crimine, dall’amministrazione locale alla riorganizzazione delle forze di polizia, la riforma, fortemente caldeggiata dal premier Erdoğan e il suo partito (AKP), arriverà prima delle elezioni di giugno e minaccia di stringere ancora di più la mordacchia attorno al collo della libera espressione e dell'informazione del paese.
Il ricercatore Efe Kerem Sozeri ha spiegato bene su Medium, con tanto di vignette esplicative, quali potrebbero essere gli effetti pratici di questa riforma: fermi indiscriminati per manifestanti, indagini e intercettazioni senza il controllo di una corte preposta, l’uso pretestuoso della violenza da parte delle forze dell’ordine, il fermo o addirittura il carcere per chi manifesta, o sia sorpreso a oscurare anche solo per metà il proprio volto durante un corteo. Qualcosa di molto simila a uno stato di polizia.
«La libertà d’informazione è messa in grave pericolo da questa riforma, che riduce fortemente il controllo giudiziario sulla polizia», secondo Johann Bihr, capo del desk Est Europa e Asia Centrale di Reporters Without Borders. «I giornalisti sono già da tempo esposti ad abusi da parte della polizia che dovrebbero essere sanzionati, e non incoraggiati».
La libertà di stampa turca, infatti, da qualche tempo non gode affatto di buona salute, provocando la preoccupazione delle principali organizzazioni mondiali che si occupano di diritti umani e libertà di stampa.
A culmine di una serie di operazioni tese a infiacchire la critica nei confronti del governo e colpire gli oppositori (compresi parte di magistratura e polizia), nel dicembre scorso 27 giornalisti, noti per le posizioni molto critiche nei confronti del presidente turco, sono stati arrestati con l’accusa di aver cospirato, insieme all’imam Fethullah Gülen, per rovesciare l’attuale esecutivo. Tra le persone fermate anche Ekrem Dumanli, il direttore del principale giornale del paese, Zaman, e Hidayet Karaca, capo dell’emittente televisiva Samanyolu, ritenuti molto vicini al religioso, nemico giurato di Recep Tayyip Erdoğan.
Nello stesso periodo, la giornalista Sedef Kabaş è stata arrestata dopo aver accusato su Twitter il giudice Hadi Salihoğlu di aver fatto cadere nel vuoto l’inchiesta aperta contro i figli di alcuni ministri del governo Erdoğan.
Secondo il report sul 2014 dell'Independent Communication Network (BIA) i giornalisti in carcere sarebbero attualmente 22, e più di 61 quelli accusati di diffamazione contro Erdoğan negli ultimi tre anni. Ad oggi, l’indice sulla libertà di stampa di Reporters Without Borders posiziona la Turchia al 154esimo posto su 180, mentre Freedom House, un’organizzazione che monitora la libertà d’informazione nel mondo, ha retrocesso il paese da “parzialmente libero” a “non libero” nel suo ultimo report del 2014.
«Questo declino è giustificato da un forte deterioramento della libertà di stampa nel 2013», spiegava l’organizzazione nella sua motivazione. «Molti giornalisti sono stati intimiditi e attaccati mentre cercavano di raccontare le proteste di Gezi Park del marzo di quell’anno, e decine di questi vennero licenziati o costretti a dimettersi dopo il loro lavoro su quelle manifestazioni».
In uno scenario così problematico per l’informazione, i media online indipendenti e i social network hanno cercato di colmare questa profonda voragine democratica. Il governo tuttavia ha limitato prontamente questa minaccia bloccando l’accesso a piattaforme come Twitter e YouTube: secondo il rapporto biennale sulla trasparenza pubblicato da Twitter a inizio 2015, nel quale rende conto delle richieste di informazione e cancellazione ricevute da parte dei governi per account e contenuti, il governo turco sarebbe stato quello dal quale sono provenute più richieste di rimozione di contenuti tra luglio e dicembre dello scorso anno (477), ben cinque volte di più di qualsiasi altro paese (la Russia si ferma a 91, la Germania 43). Rispetto al periodo gennaio-giugno le richieste sono aumentate del 40%.
Le pressioni di governo, politica e forze dell’ordine, infatti, non sono l’unica forma di intimidazione all’espressione libera del paese. La minaccia di licenziamento e delle dimissioni forzate agisce come una potente arma di dissuasione e autocensura, spesso accompagnata da un contesto svantaggioso per i media indipendenti e liberi, costretti a lavorare in un regime economico drogato che premia i potenti organi di stampa che beneficiano della compiacenza e dei favori delle alte gerarchie statali.
P24 è una ONG che monitora e promuove la libertà d’azione e di pensiero nei media turchi, supportandone l’indipendenza, la produzione e la formazione. Yavuz Baydar e Andrew Finkel sono i due co-fondatori: il primo è opinionista di Zaman da 35 anni, dove scrive di politica interna e estera, collaborando anche con New York Times, Guardian, Süddeutsche Zeitung, El Pais, Al Jazeera; Finkel invece ha partecipato alla missione di Freedome House sulla libertà di stampa in Turchia nel 2013, e ha lavorato come corrispondente per Daily Telegraph, Times, Economist, Time Magazine e CNN.
Yavuz Baydar e Andrew Finkel saranno ospiti del Festival Internazionale del Giornalismo per parlare dello stato del giornalismo nel paese asiatico, nell’evento “Turchia: media sotto attacco”, previsto per sabato 18 aprile alle 14.30 presso il Palazzo Sorbello. Sempre alla Turchia è dedicato “La guerra della Turchia a Twitter”, con il ricercatore dell’Università di Amsterdam Efe Sozeri, esperto sui temi della libertà di stampa e censura in Turchia, e con Marina Petrillo, giornalista di Reported.ly.