Questa settimana in RoundUp: il teenager di Singapore che rischia il carcere per aver pubblicato un video contro il defunto primo ministro e "padre della patria", e la situazione della libertà di stampa nel paese; l'esordio degli Instant Articles di Facebook, che permettono ad alcuni editori di pubblicare articoli pensati per il mobile e fatti per essere letti all'interno dell'app di Facebook - con tutto quello che ne consegue.
Il videoblogger 17enne e la censura a Singapore
Lee Kuan Yew, primo ministro di Singapore da molti considerato “padre della patria”, muore il 23 marzo scorso a causa di una polmonite. Poche ore dopo il blogger diciassettenne Amos Yee pubblica su YouTube il video “Lee Kuan Yew Is Finally Dead!”, una durissima critica contro il suo governo e lo stato delle libertà civili nel paese.
Dopo esser stato pubblicato anche su The Real Singapore - una delle fonti di news online non controllate dal governo - il video diventa virale, collezionando milioni di visualizzazioni e giungendo all’attenzione delle autorità. Yee verrà poco dopo accusato di aver deliberatamente “offeso il credo religioso e i sentimenti delle persone”, e di aver condiviso immagini oscene di Lee e Margaret Thatcher. The Real Singapore verrà poi chiuso da Media Development Authority, un organo di censura locale sotto il controllo del Ministero dell’informazione.
Inizialmente costretto in stato di fermo, Yee viene rilasciato con l’obbligo di non commentare o condividere alcun contenuto online mentre il suo caso è ancora aperto. Condizioni che Yee rifiuta: il processo, cominciato nei primi di maggio, è giunto a un verdetto questa settimana. Amos Yee è stato giudicato colpevole e rischia di finire in carcere. La sentenza è attesa per il 2 giugno.
Singapore non è mai stato un paese da prima pagina, in fatto di censura e limitazioni della libertà d’espressione. Come riporta AP, il governo “ha da tempo cercato di proteggere con forza la sua immagine e la sua autorità con azioni legali contro critiche internazionali e interne”. Eppure un caso come quello di un teenager che rischia la detenzione per un’opinione politica, per quanto dissacrante, non può non avere risonanza internazionale.
La libertà di parola, a Singapore, è garantita dall’articolo 14 della Costituzione, ma limitata da leggi su stampa, diffamazione e sicurezza molto dure che permettono di tenere sotto controllo la circolazione delle notizie che interferiscono con l’interesse nazionale, la politica interna e la sicurezza, e rappresentano una forte spinta all’autocensura per critici e giornalisti. Quasi tutte le testate mediatiche e gli internet provider sono in qualche modo collegati al governo o al partito di maggioranza, il People’s Action Party (PAP). Secondo l’ultimo report sulla libertà di stampa elaborato da Freedom House, Singapore sarebbe da considerare paese “non libero”.
Il giorno in cui arrivarono gli Instant Articles
Questa settimana, per il mondo dei media online, è stata soprattutto quella del lancio di Instant Articles, il nuovo programma di Facebook in collaborazione con New York Times, National Geographic, Buzzfeed, The Atlantic e altre testate internazionali. Si tratta di un servizio che permette di creare articoli direttamente all’interno di Facebook, che una volta condivisi possono essere letti dall’app mobile (per ora solo da iOS), con tempo di caricamento praticamente nullo e un layout che combina testo, video, audio, mappe e l’utilizzo di specifiche gesture per la navigazione.
Il servizio, annunciato da tempo, ha esordito con un longread del New York Times, nel quale - oltre al contenuto - ha colpito subito la presenza di alcuni banner pubblicitari: uno dei punti forti del progetto, secondo Facebook, è infatti la possibilità per i publisher di inserire le proprie inserzioni pubblicitarie negli instant article e lasciare agli editori l’intero importo ricevuto dall’inserzionista - o il 70% se è Facebook stesso a vendere lo spazio.
Quello pubblicitario è un fattore che gioca un ruolo importante, in questa “relazione”: il social network infatti continua a mangiare di anno in anno porzioni sempre più grandi della torta pubblicitaria online e mobile, e portare i propri inserzionisti su questa piattaforma è un’opzione che le nove media company aderenti al progetto non volevano evidentemente rimanesse intentata.
Com’è noto, Facebook conta attualmente 1,4 miliardi di utenti attivi al mese, rappresenta un quarto delle connessioni web, ed è l’attività che impegna i possessori americani di smartphone per un minuto ogni 5 di utilizzo del proprio device. In aggiunta, si tratta del posto nel quale buona parte della vita online delle persone viene spesa, specie quella informativa (il 39% degli americani - dati Pew del 2014 - ha trovato le proprie notizie su politica e governo su Facebook).
Il grafico di Buzzfeed che mostrerebbe il sorpasso di Facebook su Google nel 2013 come principale fonte di visite.
Da qui l’altra forte necessità, da parte delle testate, di venire a patti con Palo Alto: andare a cercare i lettori lì dove si incontrano e assecondare tendenza recente, come nota Joshua Benton su NiemanLab: “Distribuire i contenuti direttamente su social e sulle piattaforme che [gli editori] non controllano direttamente”.
Ma non solo: se c’è una cosa che Facebook sa fare meglio di molti altri, è raccogliere sterminate e preziosissime informazioni sui propri utenti. Dati che i publisher non possono ricavare altrove se non dai poveri strumenti di analytics, e che potrebbero essere particolarmente utili per profilare il proprio lettore sia in termini editoriali che pubblicitari. “Facebook ha capito davvero cosa potrebbe essere importante per noi”, spiegava Greg Coleman di BuzzFeed. “Quindi invece di imporci delle cose, sono venuti a chiederci quale poteva essere una buona idea per BuzzFeed”. Un’idea che comprendesse Facebook, evidentemente.
“The NYT Changes Its Relationship Status to Married”
L’idea che Facebook ha di sé è quella di un medium, non di un publisher, ed è una convinzione che la proprietà ha espresso più di una volta. L’obiettivo, tuttavia, è da tempo cercare di imporsi come partner principale per i media e l’industria dell’informazione, rendersi in qualche modo necessaria, il “default place” - come spiega Mathew Ingram - nel quale andare per cercare notizie, aggiornarsi sul matrimonio del proprio cugino, ridere di e con qualcuno. In sostanza, occupare le esistenze online di tutti e mangiarsi i media (Will Oremus su Slate) o l’intera Internet (Adrienne LaFrance su The Atlantic).
Immagine via geekculture.com
La ricerca di questa partnership dura da ormai da tempo, tanto che progetti di Facebook per il giornalismo continuano a nascere e morire da qualche anno: è il caso per esempio di Social Reader, una specie di homepage integrata in Facebook e creata da redazioni come Guardian e Washington Post - progetto morto poco tempo dopo. O il lancio di Paper, che avrebbe dovuto conciliare la lettura degli articoli per gli utenti, e la creazione di contenuti ad hoc per le testate. Ma perché farlo? Perché cercare la centralità nella vita delle persone attraverso il giornalismo?
Introducing Instant Articles, a new tool for publishers to create fast, interactive articles on Facebook.
Posted by Facebook Media on Tuesday, May 12, 2015
“Niente è più virale di un bell’articolo”, dice James Bennet di The Atlantic nel video di presentazione. E dall’engagement, e dalla lettura attiva dei contenuti su piattaforma, dovrebbero guadagnare entrambi gli attori dell’accordo. Secondo Adam Tinworth, ciò che importa a Facebook però è sostanzialmente “Facebook”: tenere più gente possibile sulla propria app e riservare “un trattamento speciale” per gli editori finché supportano - coscientemente o meno - questo suo obiettivo.
Il problema, per Tinworth, è che il giornalismo, continua a mettere gatekeeper fra sé e il pubblico: da Aol a Google, c’è sempre qualcuno in grado di offrire servizi ed esperienze migliori al lettore, e coi quali il giornalismo è costretto a scendere a patti, rischiando di ancorarsi per sempre - come ricorda Emily Bell - a un attore estraneo, che può favorire o sfavorire il proprio lavoro secondo regole commerciali e tecnologiche diverse da quelle di un giornale.
Main problem for publishers + FB remains theoretical: can you both be journalistic + be part of a commercial power structure?
— emily bell (@emilybell) 13 Maggio 2015
Wolfgang Blau tranquillizza tutti parlando della questione “Facebook e giornalismo” attraverso una lista di domande ricorrenti che gli vengono fatte di recente (post che si potrebbe tranquillamente intitolare “Intervista: la stai facendo male").
Tra queste: “Pubblicare per Facebook significa produrre sempre più gattini. Non è degradante, per il giornalismo? (Ora che mi ci fai pensare: non vedo gattini su Facebook da un bel po’. Comunque ti chiedo: ma che amici hai tu su Facebook?)”
I had (the privilege) to give a couple of interviews to media journalists these last days and keep wondering: why are...
Posted by Wolfgang Blau on Thursday, May 14, 2015
“The media finally signs up for a Facebook account”, riassume John Herrman su The Awl, esprimendo anche qualche dubbio sull’eccessiva lunghezza degli articoli. Preoccupazione condivisa da Amy Webb, secondo la quale Instant non sarà disruptive, e rischia di non entrare realmente nella vita delle persone - se non nel momento in cui si collezionano i loro dati.
Per il creatore della newsletter NextDraft Dave Pell, in “The NYT Changes Its Relationship Status to Married”, la scelta di abbracciare il progetto “fa schifo” (anche) perché la potenziale neutralità della rete, grazie alla quale una blogger qualunque può diventare pubblicamente rilevante in poche ore, rischia di essere minata per sempre - essendo Instant un progetto concordato con pochi publisher scelti, e che potrebbe potenzialmente svantaggiare chi ne sta fuori.
Gif via The Awl
A conti fatti, l’interesse degli editori agli accordi con Facebook non è difficile da comprendere, e quella di Zuckerberg - in qualche modo - assomiglia molto a un offerta che forse "non potevano rifiutare" - scrive Alan D. Mutter. “A dicembre, per esempio, Facebook per gli editori ha portato tre volte il traffico delle altre sette piattaforme social messe insieme (Pinterest, Twitter, StumbleUpon, Reddit, Google+, LinkedIn, and YouTube)”, spiega ancora Benton. È impossibile pensare di non aprire quanto meno un dialogo con un attore del genere: “Non abbiamo più il monopolio di contenuti e distribuzione, da valle a monte” spiega Jeff Jarvis su BuzzMachine.
“Ora viviamo in un ecosistema nel quale dobbiamo collaborare con altri. Fatevene una ragione. E cercate di trarne vantaggio”. Quanto meno, avverte Dan Gillmor, nel breve periodo:
Facebook "instant articles" will be good for a few media orgs in the short run. But journalism will be far worse off as a whole.
— Dan Gillmor (@dangillmor) 13 Maggio 2015
Il lancio degli Instant Articles, ovviamente, ha stimolato una discussione vasta e molto varia, con opinioni che vanno dalle più positive alle catastrofiste. In questo notebook su Spundge potete trovare, in continuo aggiornamento, l'evoluzione del dibattito.
Instant Articles: media and Facebook "in a relationship"
Facebook, Media, Journalism, Instant Articles
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