di Andrea Iannuzzi - dal blog PuntoNave
In un tweet: [tweetable]Il web è morto, i brand sono morti e anche noi non ci sentiamo tanto bene[/tweetable]
TL;DR version: Appunti dalla conferenza dell’Online News Association di Los Angeles 2015: mentre si cercano disperatamente modelli di business oltre l’advertising per sostenere l’industria dei media, l’impressione è che editoria e giornalismo possano alla fine separare i propri destini, imboccando strade diverse. Crolla il sistema gravitazionale, i pianeti delle notizie hanno smesso di girare intorno alle stelle delle testate: non è più solo una crisi del modello classico (contenitori + contenuti), è una crisi che intacca il concetto stesso di testata, di brand, di funzione editoriale.
Saranno i bisogni degli individui a determinare la domanda di informazione, in un rapporto rovesciato con le fonti, dettato da: esperienza, empatia, emozioni. Dall’ad blocking al peer to peer publishing, dagli algoritmi di personalizzazione delle storie alla membership su misura, fino al progetto di inserire affidabilità e credibilità dei contenuti nella ricetta di Google: tutti i segnali dicono che il potere dell’informazione si sposta sull’utente, sul lettore, sull’individuo sociale, che già oggi può votare gli autisti di Uber o le camere di AirBnB e domani, perché no, potrà votare i servizi giornalistici che legge e i loro autori. Diventerà lui il nuovo “padrone” del giornalismo e dei giornalisti, come in teoria dovrebbe essere da sempre.
1. Premessa (la lezione di Uber X)
Ventisei dollari e 40 centesimi – comprensivi di mancia e chewingum offerto da Muhammad, l’autista – per una corsa di 18 miglia da Santa Monica a Downtown Los Angeles: la metà del prezzo di un taxi regolare, con il doppio della gentilezza. E non era andata peggio con Rachel, Elena, Edwin: del resto la loro sopravvivenza dipende dalla gentilezza, dal meccanismo di feedback immediato e obbligatorio da parte dei clienti (non puoi riutilizzare il servizio se prima non esprimi con un voto il tuo grado di soddisfazione per la corsa precedente: da una a cinque stelle, poi si fa la media e quel numero compare accanto al volto dell’autista, a disposizione dei clienti successivi).
Uber X – servizio di trasporto pubblico effettuato con utilitarie di privati cittadini – è il simbolo dei vantaggi che l’evoluzione digitale della specie ha apportato nella vita di noi bipedi analogici. Se siamo disposti a qualche concessione (la registrazione della carta di credito per il pagamento automatico, il tracciamento dei nostri tragitti), se non ci dà noia essere accolti da uno sconosciuto che ci sorride, ci chiama per nome – è il modo per sapere se siamo noi gli autori della richiesta – e ci chiede se l’aria condizionata è ok, significa che la rivoluzione digitale ci ha conquistato. E non siamo più disposti ad accettare servizi al di sotto di questo standard, non siamo nostalgici di un tempo che non c’è più, non siamo ancorati ai ricordi di quel mondo: per la “recherche” a noi basta Google. Anche Muhammad Rachel Elena sono esseri analogici evoluti: per loro il digitale è la differenza tra la disoccupazione e un lavoro, con tanti saluti agli scioperi dei tassisti.
Certo, la tecnologia non è il futuro radioso a costo zero che qualcuno ci vuole far credere: sui rischi di restare intrappolati nella “gabbia di vetro” di un display elettronico e di vedere le nostre capacità intellettive ed esperienzali ridursi progressivamente a causa degli algoritmi informativi, vale la pena di leggere l’ultimo saggio di Nicholas Carr, intitolato appunto “The Glass Cage” (disponibile anche in italiano, “La Gabbia di Vetro”, Raffaello Cortina editore). Di sicuro il processo di robotizzazione è sempre più invasivo e rappresenta una tendenza forte anche nella comunicazione e e nel mondo dei media. Ma qui non si tratta di essere tecnoutopisti o catastrofici. C’è una realtà da analizzare, uno scenario da disegnare nella consapevolezza che la generazione nata prima del 1985 sarà l’ultima ad avere memoria di come fosse il mondo prima di Internet: senza addentrarsi in analisi su cosa si perda e cosa si guadagni, la Storia ci assegna il ruolo di cerniera tra l’universo analogico e quello digitale: argomento al quale è dedicato il libro di Michael Harris, “The end of absence”. Tocca a noi, nostro malgrado, portare a compimento questa transizione e non ci rimane molto tempo.
Nel mondo di Uber X non c’è spazio – né bisogno, né mercato – per i media come li abbiamo conosciuti fino a oggi. Lo so, è una frase detta e scritta mille volte, ma quando vi ritrovate con il vostro smartphone in mano a compiere operazioni semplicissime che vi risolvono la vita soddisfacendo le necessità del momento (un’auto per muoversi, un letto per dormire, un ristorante takeaway per mangiare, una chat per stare in contatto con i vostri affetti), quando queste operazioni possono essere controllate da voi durante tutta l’esperienza (l’autista è a 3 minuti, conosci in anticipo il modello di macchina e la targa, ha cambiato strada e lo vedi avvicinarsi sulla mappa, ti telefona per sapere dove sei), allora vi rendete conto di quanto sia anacronistica la proposta di un prodotto giornalistico confezionato, per quanto flessibile e studiato sul cliente. E di come non basti più nemmeno “essere il New York Times". Qualcuno ha già parlato di "morte dei brand giornalistici".
Satisfaction = expectations / reality, says @dkiesow. I'll quote him in my bio #ONA15 #ONAUX
— Andrea Iannuzzi (@Aiannuzzi) 26 Settembre 2015
2. Editoria vs giornalismo?
La recente conferenza dell’ONA (Online News Association) che si è tenuta a Los Angeles ha consentito come sempre di tastare il polso al meglio del giornalismo mondiale, sia in termini di contenuti che di tecnologia. Ma ha sancito, pur senza dirlo esplicitamente, quello che a me pare un punto di svolta: le strade dell’editoria e del giornalismo sono destinate a separarsi. Ve lo dico subito: non cercate questa rivelazione all’interno dei diversi panel della conferenza, il giornalismo senza il business degli editori tradizionali (ma con la comunità di individui sociali a svolgere il ruolo di nuovi editori) non è stato ancora teorizzato. Ma ho la sensazione che sia uno scenario plausibile per il futuro, nemmeno tanto remoto. E forse da questa separazione il giornalismo avrà da guadagnare, perché potrà disinteressarsi dell’obbligo di vendere un prodotto e tornare invece al proprio ruolo sociale e civico, in un rapporto diretto con le persone e le comunità alle quali si rivolge e dalle quali sarà non solo sostenuto ma sollecitato. L’editoria – almeno nella forma che conosciamo oggi - è un’industria che sembra aver esaurito il suo ciclo vitale, come altre prima di lei: tutti i tentativi più o meno riusciti di mantenerla profittevole si scontrano con numeri – in termini di ricavi e sostenibilità - spesso impietosi, talvolta portatori di speranza, tuttavia insufficienti per avere fiducia in un modello di business ritrovato. Per carità, nessuno sta fermo a guardare i muri che crollano: laddove hanno fallito i paywall e la pubblicità tradizionale – già di per sé in crisi, aggravata dall’avvento degli ad blockers – ora si provano nuove forme di coinvolgimento, strategie di ricavi, modelli di prodotto e di business. I trend tecnologici rappresentano ancora il faro all’orizzonte per un’industria che forse potrà continuare a finanziare il giornalismo (in perdita) se riuscirà a spostare il focus del business sulla tecnologia. Dovrà però smetterla di ragionare in termini di prodotto e cominciare a farlo in termini di servizio: se c’è ancora spazio per “fare soldi”, risiede nelle piattaforme di abilitazione. Il binomio fra trend tecnologici e nuove forme di monetizzazione dell’esperienza dei lettori rappresenta il futuro immediato. Quindi è doveroso, oltre che salutare, rendersi conto di quello che accade e provare a reagire, prima di arrendersi.
3. La formula delle 4 E: Engagement = Esperienza, Empatia, Emozioni
C’è chi, come Damon Kiesow (Head of mobile Initiatives alla McClatchy Company), ha scomodato l’Introduzione alla Metafisica di Heidegger e l’esempio del martello usato dal carpentiere come un’estensione della propria mano, senza doverci pensare, tanto da rendere l’oggetto “trasparente”. Oggi la tecnologia rende un numero sempre maggiore di strumenti “trasparenti” e sfida chi produce e distribuisce contenuti informativi a fare i conti con la necessità da parte dell’utente di avere un’esperienza fluida, continua (“seamless”): non c’è niente di peggio del costringerlo a un sovraccarico cognitivo, a compiere azioni innaturali per raggiungere l’obiettivo. L’esperienza dell’utente (in gergo UX, abbreviazione di User Experience) deve allora diventare il nostro primo pensiero. Tre sono i parametri, secondo Kiesow, da tenere presenti: il numero di passi che l’utente deve compiere per raggiungere l’obiettivo, la loro lunghezza e la loro difficoltà, non in senso teorico o dal punto di vista di chi crea e distribuisce il contenuto, ma come percezioni dell’utente stesso. In un mondo che – per alcune aree geografiche e alcune fasce d’età – non è già più “mobile first” ma “mobile only” (non conosce nemmeno l’esperienza del consumo di contenuti via desktop) è importante focalizzarsi sull’esperienza, anteponendo i problemi alle soluzioni, le persone al prodotto, esercitando una funzione di “servant leadership”.
Se l’Esperienza è buona, tra noi e il nostro “lettore” può crearsi Empatia. In fondo cos’è il modello di membership (di cui parleremo più avanti) se non il tentativo di codificare l’empatia tra noi e la nostra comunità? Parente stretto dell’empatia (e molto legato anche all’esperienza) è l’Engagement, termine che nel mondo dell’informazione digitale copre un ampio spettro di comportamenti, ma che si riassume nella conoscenza reciproca, nella relazione e nell’interazione tra i diversi soggetti coinvolti nel processo informativo. E per creare engagement, bisogna suscitare Emozioni. Chiunque abbia un po’ di familiarità con i social media lo sa. Una delle parole sentite più spesso a Los Angeles è stata “emozioni”, forse un omaggio involontario dalle colline di Hollywood al film del momento, Inside Out. Di costruire “emozioni intorno al brand” ha parlato Mary Walter-Brown, publisher del Voice of San Diego; e le emozioni dei lettori, dice Maria Ressa – fondatrice e CEO di Rappler – sono importanti perché influenzano quello che scriviamo e come lo scriviamo”.
.@Maria_Ressa Emotions of our crowd are important because it influences how we write and what we write. #ONA15 #crowdecon — Megan Combs (@meganrcombs) 24 Settembre 2015
Le emozioni vanno però gestite con cura da chi opera nei media, soprattutto nel contesto di quella che Amy Webb – la “futurista” che ogni anno incanta la platea dell’ONA con le sue Tech Trends (vedi più avanti) – chiama “Internet Mob Justice”: dal caso di Cecil the Lion ai Baltimore Riots, la rete e i social abilitano situazioni di giustizia popolare sommaria. Compito dei media è non soffiare su quei fuochi, specie quando si trasformano in linciaggi, dietro al paravento del diritto/dovere di cronaca.
4. Qualità delle metriche, metriche di qualità
Ma esperienza, empatia, emozioni, engagement, si possono misurare? Sì, anzi si dovrebbero misurare e per farlo sono necessarie metriche differenti rispetto a quelle tradizionali, basate su parametri quantitativi. Bisogna essere capaci di analizzare la qualità delle interazioni. Dana Chinn (Director, USC Media Impact Project, USC Annenberg Norman Lear Center) parla di un approccio ai dati “audience-first” e lo sintetizza nei tre numeri chiavi delle metriche: 1-2-15, dove “uno” significa che c’è una persona dietro a ogni clic (e a noi devono interessare quelle persone, tante o poche che siano); “due” è il fatidico secondo clic, cioè il temibile bounce rate: l’utente che sceglie di approfondire un nostro contenuto vale molto di più, in termini qualitativi, rispetto al primo clic che poi rimbalza e se ne va; infine “quindici” sono i minuti che ciascuno di noi dovrebbe dedicare, ogni giorno, alla cura social della nostra storia (rispondendo ai commenti su facebook, controllando le email correlate a quella storia, provando a rilanciarla in modo diverso, interagendo con le persone potenzialmente interessate). Qui sotto potete vedere l’intervento completo di Dana Chinn.
Al Tow Center for digital Journalism invece i due ricercatori Michael Keller e Brian Abelson hanno progettato e realizzato “Newslynx”, uno strumento (open source) ad uso delle redazioni per misurare l’impatto dei propri contenuti, a prescindere dai dati canonici di traffico. La ricetta di Newslynx mescola le metriche tradizionali a quelle social (likes, retweet, condivisioni) cercando di aggiungere parametri qualitativi (per esempio il tipo di account che ha linkato quel contenuto, oppure gli eventi ad esso correlati). Il prototipo è in via di sviluppo e non è uno strumento automatico: serve però per andare oltre le pageviews e capirne di più sull’efficacia del nostro lavoro all’interno della comunità alla quale ci rivolgiamo. Per saperne di più: Bit.ly/ona15-impact-tips (PDF) e Newslynx.org.
Sulla qualità sembra voler scommettere anche Google che, per bocca di Richard Gingras, ha rilanciato il cosiddetto “Trust project”, citando la Stampa e in particolare il direttore Mario Calabresi come partner attivo e propositivo: la sfida è quella di riuscire a inserire nell’algoritmo dei parametri che consentano all’utente di distinguere e scegliere i contenuti più affidabili.
5. Come (provare a) sopravvivere: membership e dintorni
Esistono nuove strade per il business dei media? E come si possono percorrere? Brevemente, ecco per titoli alcuni spunti emersi dalla conferenza di Los Angeles.
Membership è la parola magica, di questi tempi. Facile a dirsi, più difficile realizzarla. Un caso di scuola è quello del Voice of San Diego, sito di giornalismo investigativo non profit, che ha strutturato un meccanismo di membership scientifico: il lettore fedele che decide di diventare membro del programma viene portato al centro di una “esperienza” che va dagli incontri periodici con la redazione alle email mensili con le quali il CEO dell’azienda lo mette al corrente della situazione finanziaria e dei programmi, dalle anteprime sugli scoop in corso alla possibilità di essere testimonial delle campagne del sito. Il segreto sta tutto nella piattaforma di gestione, il cosiddetto CRM (Customer Relationship Management), in questo caso affidato a SalesForce. Una delle strade per arrivare alla membership è quella delle newsletter, altro termine tornato in voga, secondo una piramide rovesciata che parte da un milione di visitatori del sito, screma 15 mila iscritti alla newsletter e arriva a 2 mila sottoscrittori della membership: una forma di ricavo solida e duratura, secondo le parole di Mary Walter Brown.
Al Texas Tribune – sito che fra l’altro anche quest’anno è stato pluripremiato agli Online Journalism Awards, insieme a realtà emergenti come reported.ly (breaking news, per la copertura di Charlie Hebdo su twitter) e a testate storiche ma impegnate nell’innovazione come il Washington Post (general excellence), senza dimenticare la BBC per come ha usato Whatsapp nell’emergenza Ebola o il Denver Post che ha dedicato un topic e un’intera redazione alla marijuana legalizzata in Colorado – hanno deciso di puntare tutto sugli eventi live, con successo. Nell’advertising tradizionale, interessante l’esperienza di Quartz, che è riuscito a ottenere buoni risultati ricercando la qualità anche nei messaggi pubblicitari.
Fuori dagli schemi consolidati c’è invece l’esempio di ProPublica, che ha fatto del data journalism non solo la sua cifra ma anche una possibile fonte di ricavi. Il sistema lo ha spiegato Scott Klein: i dataset raccolti, perfezionati e organizzati da ProPublica (per esempio quello sulle spese dei medici in tutti gli Stati dell’Unione) vengono messi a disposizione dei “clienti” in varie forme e a vari prezzi, a seconda di chi sia l’interlocutore: giornalisti e università pagano meno rispetto a chi vuole utilizzare quei dati a scopi commerciali.
Beacon, infine, è una piattaforma di crowdfunding che finanzia progetti giornalistici specifici, offrendo anche la pubblicazione.
6. La morte del mobile web e il “peer to peer publishing”: incognite e opportunità
Torniamo ora al tema iniziale. Il problema è la crisi gravitazionale del sistema giornalistico-editoriale fin qui conosciuto: i pianeti delle notizie (in senso lato) hanno smesso di girare intorno alle stelle delle “testate”. I brand non hanno più forza d’attrazione e tutto collassa, tutto fluttua in un nuovo spazio indefinito.
Ha detto per esempio Richard Gingras, responsabile dei rapporti con i media di Google, incalzato da Emily Bell durante il keynote di apertura, che nell’era del mobile il web è morto. E parafrasando Woody Allen, si potrebbe dire che se i brand sono morti, se il web è morto, anche noi non ci sentiamo tanto bene. In questo nuovo caos nel quale l’utente sembra al centro di un universo governato dalla relatività - oggi plasticamente rappresentato dal newsfeed di Facebook (ma domani chissà) - c’è ancora spazio per il giornalismo?
La risposta è ovviamente sì, altrimenti cadremmo nel paradosso di una società basata sull’informazione costante che però prosciuga le sorgenti di questa informazione. Però non c’è nessuna evidenza che il giornalismo debba ancora restare legato all’editoria, anzi semmai comincia a esserci qualche evidenza del contrario: le strategie a breve termine degli editori, pressati dall’urgenza di invertire la rotta, stanno forse affossando ancora di più il giornalismo, costringendolo dentro gabbie che non gli appartengono e mettendo a rischio la pluralità, la neutralità (nel senso dell’accesso all’informazione), il rapporto con i cittadini.
Io non so se verrà creato e come debba essere strutturato l’uber del giornalismo. È però suggestivo uno dei “tech trend” presentati da Amy Webb, sotto la definizione di “Peer to peer publishing”, che sfrutta le potenzialità del cosiddetto WebRTC (roba da nerd). Avete presente Torrent? Il file sharing via browser che bypassa i server? Beh anche nell’ambito dell’informazione si arriverà presto a uno scenario del genere, allo scambio one – to – one. Per saperne di più informatevi sul Project Maelstrom.
Oppure si può immaginare una stessa storia confezionata in decine di modi diversi, a seconda delle caratteristiche di lettura e comprensione del singolo utente. Fantascienza? No, si chiama “versioning” e fa leva sugli algoritmi di personalizzazione del cosiddetto “cognitive computing”, quello che è in grado di prevedere i comportamenti e le necessità di ciascuno di noi in base alla nostra vita on line. Avete mai sentito parlare di Cyrstal? È una app che raccoglie, cataloga e offre all’utente migliaia di “profili di comunicazione personale”, con nome e cognome. Ciascuno di noi ha un proprio stile di scrittura e di interazione linguistica: Crystal scansiona la nostra attività online e dice a chi dovrà comunicare con noi – magari via email – se siamo logorroici o sintetici, se ci piacciono gli emoticon o i punti interrogativi.
È certo che andiamo verso un mondo nel quale trionfa il rapporto diretto tra individui – o comunità di individui – rispetto al ruolo del fornitore del servizio, con un rovesciamento dei ruoli: non sarà più il fornitore del servizio (della “notizia”) a cercare il proprio utente cercando di offrirgli quanto ha di meglio, sarà l’utente a esprimere le proprie necessità rivolgendosi a quelle fonti – o a quel sistema di fonti – che meglio soddisferanno le sue necessità e che dovranno necessariamente sottoporsi alla sua valutazione immediata. In fondo, se votiamo con le stelline gli autisti di Uber (o i ristoranti di Yelp o gli appartamenti di AirBnB), perché non dovremmo poter esprimere il nostro gradimento anche su un servizio giornalistico e sul suo autore?
Se vogliamo, nel susseguirsi frenetico di fasi a cui lo sviluppo digitale ci ha abituato, assistiamo probabilmente al tramonto anche dell’era “push”, quella delle notifiche e del prodotto confezionato e distribuito per raggiungere un utente in attesa con i suoi bisogni. Il cittadino, l’individuo sociale è stufo anche delle notifiche, non vuole essere disturbato inutilmente. Si sta creando un rapporto più maturo e consapevole con la tecnologia digitale, per cui si prende quello che serve, quando serve, con l’unico parametro competitivo rappresentato dalla facilità d’uso, dalla reperibilità immediata, dall’esperienza “seamless”: ogni potenziale ostacolo cognitivo diventa una barriera che separa – a volte irrimediabilmente – l’utente dal fornitore di servizio.
Passata l’ubriacatura dell’overload informativo a costo zero, gli individui e le comunità torneranno ad esprimere il proprio bisogno di orientarsi nel nuovo mondo attraverso informazione di qualità. Chi si farà trovare pronto, chi metterà al centro della propria traiettoria di sviluppo l’esperienza dell’utente – e quindi la capacità di farsi trovare senza spreco di energie cognitive – avrà una chance in più. Ma l’obiettivo non sarà, non dovrà essere, quello di guadagnarci da questo servizio. Dimentichiamoci il business, almeno per ora. Pensiamo, come giornalisti, all’obbligo di tenere in vita, trasformandolo e adattandolo alle nuove esigenze, il bisogno di informazione che contraddistingue le società democratiche.
Mettiamo le persone davanti al prodotto, i problemi davanti alle soluzioni, lasciamoci guidare dal principio di “leadership servente” nei confronti della nostra comunità. Sarà la soddisfazione (secondo l’equazione soddisfazione = aspettative / realtà) del bisogno stesso a generare – eventualmente – il controvalore economico.
One more thing
Se siete arrivati fino a qui, vi chiedo altri due minuti di pazienza. Alla conferenza ONA c’è stata anche un po’ di gloria per il team che ho l’onore di guidare: il progetto di cogestione dell’account Instagram della Cronaca Italiana insieme all’associazione Instagramers Italia è stato selezionato tra quelli meritevoli di una presentazione pubblica nelle sessioni “Lightning Talks” e “Unconference”. Abbiamo così potuto raccontare la positiva esperienza avviata la scorsa estate – e tuttora in corso – che ci ha permesso di dare le password del nostro account Instagram in mano agli utenti, chiedendo loro di raccontare, attraverso di noi, le storie del loro territorio per immagini. Un modo attraverso il quale abbiamo provato ad applicare su noi stessi la regola delle tre “E” (qui sotto le slides della presentazione).