Serata dedicata al documentario alla Sala dei Notari. Protagonista è “Armadillo”, opera del danese Janus Metz, vincitrice del Grand Prix 2010 alla Settimana della Critica, sezione parallela del Festival di Cannes. Si tratta del racconto dei sei mesi di missione in Afghanistan di un gruppo di giovani soldati danesi, partiti per la guerra con un po’ di incoscienza, in cerca di emozioni forti, e tornati con ferite nel corpo e nell’anima.
La proiezione, in anteprima per l’Italia, è stata preceduta da un introduzione a cura di Marco Rosi, programming manager del canale FX di Sky, e Carlo Antonelli, direttore del mensile Rolling Stone Italia. Armadillo, infatti, andrà in onda nei prossimi giorni, nell’ambito del ciclo “Gli occhi della guerra”, proprio su FX, un canale «non di evasione ma di identificazione» secondo Rosi. E, secondo di Antonelli, si tratta di un “documento shock” paragonabile a quelli pubblicati in passato da Rolling Stone versione americana, come un’inchiesta che l’anno scorso portò alle dimissioni del generale McChrystal, comandante della forza internazionale in Afghanistan, o come alcune foto molto crude di cadaveri provenienti da Wikileaks, cioè dagli stessi documenti del Pentagono.
Il regista Metz, che ha voluto presentare «una radiografia della guerra ridotta nel suo nocciolo essenziale fatto di violenza e culto della forza», e il suo cineoperatore Lars Skree hanno passato tre mesi e mezzo in Afghanistan insieme alle truppe danesi, rischiando in alcuni frangenti la vita insieme agli stessi soldati. In 60 minuti il documentario, che prende il nome dalla base alleata in Afghanistan alla quale fanno capo i soldati danesi, racconta la vita di alcuni ragazzi dal momento della partenza da casa fino al ritorno in patria, passando per i mesi della missione.
Particolare attenzione viene rivolta da Metz a ciò che ha animato i ragazzi a partire per la guerra: più che una particolare tensione ideale, il desiderio di “affrontare una sfida”, di “vivere emozioni”; di sfuggire, insomma, alla noia, incuranti del dramma vissuto dalle persone care. Una volta in Afghanistan, poi, non vedono l’ora di buttarsi nella mischia, quasi invocando un attacco da parte dei Talebani. Quando l’azione arriva (e qualcuno viene ferito anche gravemente), poi, le emozioni sono contrastanti: da un lato il turbamento dopo gli scontri a fuoco, dall’altro il desiderio di rivalsa verso i Talebani e l’esaltazione dopo averne uccisi alcuni. C’è anche spazio per alcuni dialoghi con i civili afghani, che alla richiesta di collaborazione con le forze Isaf rispondono con la paura di essere uccisi dai Talebani e con il dolore per le perdite (umane e materiali) subite per opera degli stessi soldati alleati.
Quando, dopo l’uccisione a colpi di mitra di alcuni Talebani già gravemente feriti da una granata, i soldati festeggiano, uno di loro (che resta anonimo) fa pervenire la notizia in patria, provocando un’inchiesta interna: il capo della missione danese si affretta quindi a spiegare ai soldati che l’azione è stata più che giustificata, premiando i due che hanno lanciato la granata. Nei protagonisti del documentario c’è quindi una consapevolezza duplice: da un lato l’assurdità delle azioni che si compiono in guerra, dall’altro la loro giustificabilità in quel contesto. E ciò che lascia interdetti gli spettatori è la conclusione della vicenda: finalmente tornati in patria, nei ragazzi alla gioia si sostituisce una sorta di malinconia, e in uno di loro il desiderio di rituffarsi nell’adrenalinica assurdità della guerra.
Enrico Tamburrini