Il Festival del Giornalismo di Perugia si chiude con una serata speciale: Eugenio Scalfari, intervistato da Giovanni Valentini, racconta i 150 anni dell’Unità d’Italia, appena celebrati il 17 marzo. E lo fa nel suo stile, riconoscibilissimo e caustico, tipico delle grandi firme del giornalismo.
Si può parlare di un bilancio positivo di quest’ultimo secolo e mezzo di storia patria? Perché è importante e giusto parlare di questa ricorrenza? L’epica del Risorgimento può essere definita discutibile o va incensata in maniera incondizionata? Sono 150 anni quanto mai attuali, dice Scalfari, poiché in controluce vi si può leggere l’attualità, l’oggi che stiamo vivendo. Se si considera il reddito nazionale, la modernizzazione, il benessere collettivo, non sarà difficile verificare come tutto questo sia migliorato non solo per l’Italia, ma anche per il resto d’Europa. Ma l’Unità dello Stato ha visto compiersi, parallelamente, l’unità del popolo, degli italiani? È la domanda che il fondatore di Repubblica sembra suggerirci con le sue parole. Formare uno Stato unitario ha sicuramente permesso a quello “spezzatino” che era la penisola italiana a metà del XIX secolo, come Mazzini volle definirla, di coagularsi in una entità politica diversa, più forte, più compatta, più unita. Oggi, tuttavia, si leva il rimbrotto delle regioni settentrionali, più sviluppate economicamente, che bollano il Risorgimento come episodio d’élite, privo del coinvolgimento popolare, indifferente alla massa di gente che costituiva la gran parte della popolazione di quell’epoca: contadini, analfabeti, poverissimi. Ed è questa una delle regioni che porta a spiegare la fragilità della democrazia italiana e lo scarso senso dello Stato presente negli italiani. Scalfari, a tal proposito, sostiene che il vero motivo risiede nel ritardo incolmabile con cui l’Italia è giunta all’unificazione, rispetto a Stati come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna che l’hanno preceduta di diversi secoli.
Parla dell’Italia, Scalfari. Parla di come siamo. Lo fa descrivendo quello che già Francesco De Sanctis aveva tratteggiato come “l’uomo del Guicciardini”, ovvero il tipico italiano, non schierato, attento a non scontentare nessuno, sempre intento a curare il suo particulare. Questo passaggio gli consente di toccare temi più attuali, di commentare la situazione presente in cui ci troviamo, dove il Presidente del Consiglio è stato capace di ribaltare ciò che il Sessantotto aveva imposto: il privato è pubblico. Egli ha operato l’inverso: il pubblico è privato.
Un fenomeno, quindi, meno politico e più culturale - o solo culturale - chiede Giovanni Valentini? Il fondatore di Repubblica tratteggia una Storia d’Italia che va oltre gli ultimi 150 anni, che prende le mosse da Dante, il primo a parlare di “Italia” e a creare una lingua comune insieme a Petrarca e Boccaccio. E poi il Rinascimento, le arti figurative, il Barocco, la nascita del primato della musica con Rossini, Donizetti sino a Verdi e al melodramma. Tutta cultura, solo cultura. E la politica? Qual è stato il ruolo della monarchia nel passaggio dalla frammentazione all’unità? Scalfari sostiene che il contributo di Casa Savoia sia stato determinante, indispensabile. Mazzini, infatti, voleva una rivoluzione dal basso. Ma il basso non c’era, risponde Scalfari, la plebe non sapeva neanche cosa fosse l’Italia e chi fossero gli intellettuali e i politici che volevano unificarla. Si arriva cosi a parlare del brigantaggio, la crudele guerra civile che vide contrapposte due fazioni di italiani, grazie alla quale si è giunti ad abbandonare le ipotesi federaliste di unione dello Stato, preferendo una formula più accentrata, più centralizzata.
La serata si conclude con un accenno al tema della laicità dello Stato, che oggi appare cosi indebolita da sembrare scomparsa, come un principio rimasto valido per lunghissimo tempo e ora quasi dimenticato. Solo uno Stato laico, dice Scalfari, può metterci al riparo dall’ingiustizia, il più grave peccato che un uomo possa compiere.
Antonio Bonanata