Tecniche di dissidenza e repressione digitale

Regolamentare la Rete, senza però scadere nella censura e nella repressione dei contenuti digitali, soprattutto in quei contesti in cui i social network sono gli unici a ricoprire la funzione di media liberi, come nei Paesi della Primavera araba o negli altri Stati retti da un regime autoritario. Un tema sul quale è difficile dare risposte definitive in uno scenario che è in continuo mutamento e che sfugge ai confini nazionali, ma che è stato l’argomento centrale della panel discussion intitolata Tecniche di dissidenza e repressione digitale, tenutasi oggi, 28 aprile, presso il centro servizi Alessi. Relatore d’eccezione è stato Evgeny Morozov, giornalista bielorusso, autore dell’importante libro The Net delusion. A intervenire al dibattito moderato dal blogger Fabio Chiusi, sono stati chiamati anche l’esperto di sicurezza Fabio Pietrosanti e la scrittrice Giovanna Loccatelli.

Proprio la Loccatelli ha aperto il panel, illustrando l’importante scoperta dell’agenzia Bloomberg, vale a dire la sottoscrizione nel 2009 da parte dell’azienda lombarda “Area s.p.a”, insieme ad altre imprese del settore francesi, tedesche e statunitensi, di un contratto con il regime siriano. Il contratto prevede la cessione delle risorse per il controllo delle informazioni che scorrono su internet, con particolare attenzione di quelle messe in circolo dagli attivisti. Situazioni simili si sono riscontrate durante il regime di Gheddafi in Libia nel 2007, con contatti con aziende francesi e inglesi, così come l’altra lombarda “Hacking team”, della quale sono stati resi pubblici gli interessi nella regione del Middle East, che aveva sviluppato un trojan (il Remote Control System) per poter leggere mail e documenti degli attivisti.

Pietrosanti ha invece sottolineato l'impossibilità, allo stato attuale, di vietare alle aziende occidentali la vendita di queste tecnologie in Oriente. L’importanza di strumenti che consentano la crittografia della corrispondenza digitale nei Paesi della Primavera Araba però, grazie al ruolo ricoperto da Facebook e Twitter nelle rivolte, è stata compresa anche dai governi occidentali. Ai giornalisti tocca quindi l’importante compito di controllare i controllori, vale a dire coloro i quali potrebbero cadere nella tentazione di voler irrigidire la regolamentazione contro l’anonimato nei propri territori, cercando piuttosto di fare arrivare presso l’opinione pubblica la necessità di software open source.

Dal canto suo, Morozov ha portato al centro della discussione il pericolo che la diffusione di nuove tecnologie, come la realtà aumentata di Google, possa in realtà venire usata dai governi per ottenere informazioni di tutti i tipi sugli individui da controllare, chiedendoli direttamente al colosso di Montain View. Se in questo momento in Occidente la concezione comune è che occorra chiedere l’autorizzazione ai tribunali, ciò potrebbe in futuro cambiare.

Le scoperte poi di Bloomberg sono importantissime, ma potrebbero indurre le aziende a essere più prudenti a diffondere i propri risultati, con il risultato che si passi a una minore trasparenza sull’argomento. Occorre quindi una strategia nella diffusione di informazioni che sia attenta a non essere controproducente. E se adesso stiamo assistendo alla complicità di aziende occidentali, quando la tecnologia verrà sviluppata negli stessi Stati autoritari, la mancanza in quei contesti di una società civile organizzata potrebbe produrre effetti devastanti, poiché la ricerca ingegneristica locale spinge al controllo della rete mobile, ma anche sul riconoscimento facciale. “Riuscire a stabilire – ha concluso Morozov – in che modo la politica deve lasciare che internet sia libero, pur regolando gli scambi tra aziende occidentali e regimi autoritari, è il punto focale della questione”.

Silvestro Bonaventura