Lo scenario meta-giornalistico in rete di questa settimana è stato contraddistinto soprattutto dalla pubblicazione dei risultati di una ricerca del Pew Research Center's Project for Excellence in Journalism, che ha esaminato i video più popolari degli ultimi quindici mesi nella categoria “News & Politics” di YouTube. Ricavandone conseguenze che invadono la sfera economica e della sostenibilità del mercato delle news, il dibattito sulle fonti, il rapporto - ancora una volta - tra editoria tradizionale e nuovi media e il modo col quale gli utenti sono ormai abituati a consumare le notizie. A colpire - a leggere dalla ricerca - è infatti la funzione che la piattaforma sta cominciando seriamente ad assolvere: «I dati - è spiegato - dimostrano come si sia creato un complesso e simbiotico rapporto tra cittadini e news organization su YouTube, una relazione che si avvicina sempre più a un dialogo giornalistico continuo e che molti credono possa diventare il nuovo giornalismo online». Questione non da poco e sempre dibattuta, quella dell’uscita verso un nuovo modello di giornalismo, che vede - o deve probabilmente vedere - in YouTube un attore fondamentale: la piattaforma di proprietà di Google viaggia ormai al ritmo di 72 ore di filmati caricati ogni minuto, 4 miliardi di video visualizzati quotidianamente, imponendosi come una delle più grandi piattaforme di news al mondo.
Il caso più emblematico citato dalla ricerca è un ben noto video amatoriale girato in Giappone: tsunami dell’11 marzo 2011, 96 milioni visualizzazioni, marchio in basso a sinistra della russa RT, che ha incorporato e riproposto il filmato come fosse prodotto da un membro della redazione. Ed è così, certifica il centro di ricerche, per il 51% dei filmati nella categoria presa in esame: clip amatoriale, logo di una testata. Tuttavia, il semplice e strumentale accostamento tra la piattaforma plasmata su «gatti e spot nostalgici» - scrive Adrienne La France su NiemanLab - e i canali tradizionali rischia di non bastare a garantire un modello: «Mentre scrivo - precisa - nessuno degli ultimi cinque video del canale Reuters ha superato le 1000 visite - tranne che per un video su Lady Gaga, che ha superato le 1400 visualizzazioni, e un filmato sui fischi ricevuti alla NAACP convention dal candidato repubblicano alle presidenziali Mitt Romney, più di 4000 visualizzazioni». Ma quale dovrebbe essere, ad esempio, l’approccio migliore per i vecchi media a questi strumenti?
Matthew Ingram, su GigaOm, affronta in qualche modo la questione prendendo spunto però da altre due piattaforme: Twitter e Reddit. Ingram racconta del report di un redditor - un utente Reddit, appunto - su una sparatoria in Canada: i fatti sono stati riportati sull’aggregatore, corredati da link a tweet di testimoni e altri contenuti che per velocità e 'stile' i media classici locali non avrebbero potuto riportare. Persino video di YouTube e tweet postati «da membri di una gang alla quale una delle vittime della sparatoria sembrava apparentemente associato». Un tipo di produzione testuale poco discorsiva, basata su un racconto non mediato e composto per lo più da riferimenti esterni consultabili: una forma diversa dalla tradizionale produzione testuale. E sebbene, continua l’autore, «il formato di Reddit possa sembrare difficile da leggere, fa comunque sì che si possa fare del fact checking in modo molto più agevole, dal momento che qualsiasi lettore può semplicemente cliccare su un link e vedere il messaggio o il profilo sui quali l’autore sta basando il proprio report». Insomma: episodi simili, secondo l’autore, porterebbero a pensare a queste piattaforme di social networking come - per dirla alla Andy Carvin - a delle newsroom, «dove si cerca di separare i fatti dalla finzione, interagire con le persone. Questa, è una newsroom»: i giornalisti, chiude, dovrebbero smettere di immaginarsi come come unico strumento di reperimento delle fonti e filtraggio delle notizie, e guardare verso un giornalismo più «collaborativo».
La tesi è supportata in settimana anche dal fondatore della social news agency Storyful Mark Little su NiemanReports: «Il problema per i giornalisti nati nell’epoca delle élite è pensare ancora alle fonti tradizionali, catalogandole in base a potere e attendibilità. Ma l’autorità è stata rimpiazzata dall’autenticità come currency del social journalism: la chiave del fare comunità è cercare persone più vicine possibili alla storia, gente che raramente ha titoli ma vive in mezzo a una comunità». Sfidare il mare degli utenti internet, dei loro contenuti e delle loro osservazioni: «i giornali non possono più pretendere il monopolio della verità». È difficile, d’altro canto, immaginare che la produzione massiva degli user generated content portata dall’ingresso nella cosidetta era del “web 2.0” possa arrestarsi. Non a caso, tornando alla ricerca, una parte considerevole dei contenuti più popolari su YouTube, per la sezione esaminata, appare chiaramente come uno dei frutti di questa rivoluzione: il 39% di questi è risultato essere di natura amatoriale, contro il ben più misero 5% di quelli prodotti dalle news organization - da segnalare, in merito: i canali YouTube dei media tradizionali più consultati sarebbero quelli di RT, che dei contenuti ‘dal basso’ fa largo uso da tempo, e FoxNews, spesso visitata e commentata (secondo la ricerca, per quasi metà delle volte) in chiave critica. Oggi, suggerisce Little, dobbiamo essere «manager» della sovraproduzione di news, «scoprire e verificare in partnership con una comunità attiva».
L’attendibilità del materiale reperito online è infatti oggetto di dibattito da sempre, talvolta spunto per l’arroccamento della vecchia classe giornalistica, talvolta veritiera preoccupazione di chi sa che in rete, come al di fuori di essa, c’è un mondo di notizie da verificare. C’è il modello della BBC, per esempio, che ha costruito una vera e propria redazione deputata alla verifica dei contenuti online: un "Verification Hub" il cui compito è scandagliare contenuti amatoriali di rilevanza giornalistica e contattare le fonti telefonicamente per certificarne l’attendibilità. E c’è l’esperimento intrapreso di recente dal New York Times col progetto “Watching Syria”, diretto da J. David Goodman. Si tratta di analizzare i filmati dei citizen journalist siriani trovati su YouTube e cercare di verificarli chiedendo conferme alle proprie fonti e - appunto - coinvolgendo la propria comunità online: «Appena pubblicato un nuovo post twittiamo immediatamente un link. L’obiettivo è far partire una conversazione sui video in oggetto», spiega Goodman a TechPresident. E, aggiunge, cercare di spiegare quanto meno «perché non possiamo dire di un video che è vero al 100%». Un lavoro costruito su una vera e propria rete di fonti affidabili, basato sulla loro reputazione online e sulla trasparenza: «Ad esempio, non dicono di dove sono? Allora mando loro un DM (un messaggio privato) per verificare nome reale e provenienza. Dobbiamo essere sicuri che siano davvero in Siria, molti twittano notizie sulla Siria senza essere lì: più sei vicino all’azione, più hai credibilità. Ma abbiamo avuto feedback cattivi anche da persone sul luogo, senza dubbio». Un nuovo modello, una delle strade che dovrebbero portare al famigerato 'nuovo giornalismo online'? Per l’ideatore del progetto la risposta è un secco ‘no’, «è comunque impossibile rimpiazzare il caro vecchio lavoro sul posto». Tuttavia, ancora secondo Little, «le news organization possono giocare un ruolo importane su YouTube come ‘curator’: collaborazione, non controllo». Il NYT, dunque, ci prova.
Intanto, è proprio YouTube a incoraggiare gli utenti a utilizzare la piattaforma con criteri più ‘professionali’, assecondandola alle esigenze del citizen journalism. L’introduzione di questa settimana è la possibilità di coprire il volto delle persone filmate con la classica nuvoletta ‘pixelata’ direttamente da YouTube - il cosiddetto face blurring - nel caso in cui «si voglia condividere un filmato in cui sono stati ripresi degli attivisti» ai quali però si intende garantire l’anonimato: «Siamo fieri di essere la destinazione dove persone da ogni parte del mondo giunge per condividere le loro storie - precisa il post di presentazione sul blog ufficiale -, attivisti inclusi». E sempre di questi giorni, da segnalare la creazione di workshop tenuti dagli uomini di YouTube e dedicati a tutta la comunità degli utenti: dei corsi su produzione e post-produzione video fissati fino al mese di ottobre ai quali è possibile partecipare tramite hangout su Google+. Solo due degli ultimi tentativi di Google - fanno notare su GigaOM - di educare gli utenti alla produzione di contenuti di qualità per far crescere talenti e trarne vantaggi economici.