Questa settimana in RoundUp: un dibattito attorno al tema del native advertising, indicato da alcuni come ancora di salvezza anche per il giornalismo 'su carta'; le metriche pubbliche come unico sistema di valutazione del successo di un prodotto editoriale - e c'è chi non è d'accordo; giornalisti sempre più social, lettori sempre più esigenti: tante news, veloci e mobile.
Il native advertising non salverà i giornali
No! RT @rustyw: Native Advertising in Print Could Save Newspapers - Publish2 Blog http://t.co/XYjtorHJmT via @publish2
— Jeff Jarvis (@jeffjarvis) June 24, 2013
Questa settimana il CEO di Publish2 Scott Karp (una società specializzata in tecnologie digital-publishing) ha rievocato il tema del native advertising, ossia quel tipo di inserzioni pubblicitarie che nei giornali online promuovono prodotti e servizi tramite contenuti quasi del tutto simili a quelli originali del sito che li ospita. Karp spiega che il native advertising può diventare il presente dei media digitali - trattandosi di un sistema in grado di offrire il valore aggiunto della cura editoriale dell’inserzione per chi investe - e addirittura la «salvezza» per il futuro dei giornali di carta. Un sistema del tutto simile (quello dell'advertorial, o pubbliredazionale) in realtà nella carta stampata esiste da sempre, ammette l’autore, ma le vecchie testate, ancora forti di un brand di valore e di una solida presenza locale, possono trarre benefici da questo sistema lavorando in sinergia con le aziende per creare strategie pubblicitarie crossmediali, aiutandole a investire e a lavorare in uno scenario mediatico di cui conoscono le caratteristiche. Una nuova fonte di guadagni che dovrebbe riuscire da sola, nella tesi del post, a «salvare i giornali».
Critico su questo punto Mathew Ingram su PaidContent, che richiama in primo luogo l'obiezione di carattere etico, quella - per esempio - di Jeff Jarvis (che alla domanda «salverà i giornali?» su Twitter risponde icasticamente «NO!») sull’opportunità o meno che la stampa offra contenuti fuorvianti ai propri lettori (qui un dibattito sul tema). La tesi del CEO di Publish2 è contestata però anche da un punto di vista più strumentale: gli advertorial, spiega, non sono mai riusciti a salvare da soli il mercato dei giornali, e sembrerebbe perciò piuttosto difficile credere che possano cominciare a farlo ora che l’industria sembra avere ben altre prospettive cui guardare che quella della sopravvivenza cartacea mediante inserzioni pubblicitarie, in continua flessione da anni. "Il passato non può comprare il futuro", ricorda il CEO di Digital Media First John Paton, e se è sicuro che dal punto di vista dell'integrazione fra marketing e notizie le redazioni possono fare di più (abbattere quella che viene definita la «church/state barrier»), è molto più difficile che una strategia del genere possa garantire vita lunga a un mercato ormai morente.
Ingram, peraltro, non dimentica di sottolineare il fatto che Karp lavora per una società che vende sistemi d'integrazione del native advertising per piattaforme editoriali, «cosa che potrebbe spiegare il suo l'interesse in questo tipo di soluzione».
Come valutare il successo di un post?
Quello sul native advertising non è stato l'unico 'scontro diretto' della settimana. Su Fortune, il CEO di MuckRack Gregory Galant ha affrontato il tema della valutazione dei risultati dei prodotti editoriali, indicando le metriche social (di cui abbiamo parlato la settimana scorsa) come strumenti fondamentali per il presente e decisivi per il futuro del giornalismo online. Nel momento in cui si inseriscono i bottoni share negli articoli - com’è ormai prassi, ricorda il CEO - le performance di ognuno di questi possono essere tranquillamente contabilizzate e analizzate, ponendo l'autore di fronte a una nuova sfida, rivoluzionaria rispetto alla produzione tradizionale: imparare a essere giudicato in tempo reale e comportarsi di conseguenza dal punto di vista editoriale, puntando a contenuti che riescano a intercettare la reazione positiva dei lettori. Galant paragona la produzione classica e monodirezionale a una gara olimpica senza dati e analisi quantitative, nella quale tutti competono contro tutti ma si riesce a tenere il punteggio solo chiacchierando coi colleghi, incassando i loro complimenti: nessuno nell'era della carta poteva conoscere l'effettiva influenza del proprio articolo, continua l’autore. Adesso sì.
Tutt’altro che d'accordo Alex Halperin su Salon, che ricorda a Galant che esistono ancora offerte di lavoro, inviti, premi, apparizioni televisive, segnali concreti in grado di certificare il successo del proprio lavoro, e che i social media non sono l'unico metodo utile a quantificarne l'efficacia. Come per il dibattito sul native advertising, anche in questo caso nella replica viene richiamata la natura lavorativa dell'autore che lancia la 'provocazione': la teoria, spiega Halperin, «avrebbe avuto maggior risonanza se fosse venuta da un uomo con una bio diversa» - cercando di porre l’attenzione, quindi, sul ruolo di Galant in MuckRack, servizio di aggregazione news e social media per giornalisti. Stando a uno studio di Oriella PR Network, secondo la metà dei giornalisti raggiunti dalla ricerca il successo di un articolo sarebbe dato dal calcolo delle visite uniche che è riuscito a guadagnarsi, con propensione dei reporter francesi (il 77% degli intervistati) all’analisi dei dati social.
L'amore dei giornalisti per i social network
Il rapporto tra giornalisti e social network è ormai diventato quasi naturale, sia per quanto riguarda il processo di raccolta, che discussione e condivisione delle notizie. Questa settimana lo studio di cui già accennato, dal titolo «The New Normal for News», ha analizzato questo legame, studiando il comportamento online di più di 500 giornalisti sparsi per il mondo (Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Italia, Nuova Zelanda, Russia, Spagna, Svezia, UK e USA). Tra questi, il 59% dei giornalisti sondati ammette di usare assiduamente Twitter, con una crescita del 12% rispetto all’anno scorso, e che il 51% di questi usa piattaforme social per trovare notizie, pur non affidandosi ciecamente al mezzo (il dato crolla al 25% quando la fonte viene considerata ‘sconosciuta’). Interessanti anche i dati che parlano di una propensione naturale all'aumento delle ore di lavoro ormai accettata (il 46% si aspetta di dover produrre sempre di più) e a ritorni economici sempre meno competitivi. Il 39% degli intervistati si definisce ormai digital-first (soprattutto in Italia, Russia, Svezia e India).
Del resto, di best practice per giornalisti su come approcciare a questi strumenti è piena la rete. La loro peculiarità però è che col passare del tempo, grazie alla sperimentazione continua che avviene nelle redazioni (come visto la settimana scorsa), questi diventano sempre più precisi, e sembrano voler andare a colpire esattamente alcune abitudini ormai tipiche della platea giornalistica online. Gli ultimi, dalla conferenza di Vocus #demand13, vengono da Jay Rosen, che condensa in 10 punti i suoi «social media tips». «Non fare l'idiota», condividere cose interessanti, creare contenuto e mantenere sempre una certa credibilità sono le linee essenziali, cercando di focalizzarsi sulla propria ‘specialità’ e la propria nicchia di riferimento senza sperare in formule magiche che aiutino a diventare ‘virali’ - non ne esistono, spiega Rosen. In settimana anche Steve Ladurantaye, reporter del Globe and Mail, ha pubblicato le sue 26 ‘regole d'oro’, che si aprono e si chiudono significativamente con «You are one tweet away from being fired».
I lettori non leggono, ‘mangiucchiano’
In questi giorni, infine, Mobiles Republic ha pubblicato i risultati di uno studio condotto quest’anno sulle abitudini di lettura della app prodotta dalla società, News Republic. Più di 8000 utenti intervistati, per un quadro non particolarmente inaspettato ma piuttosto chiaro su come stia evolvendo la consultazione dei contenuti online, e quale sia ormai la tendenza: «mangiucchiare» («People aren't news reading: they are news snacking») piuttosto che leggere. Niente più ‘lettura’ delle notizie in senso classico: i lettori preferiscono avere tante piccole informazioni dalla lettura rapida, in un arco di tempo più ampio e su strumenti mobile - il 75% degli intervistati ammette di consultare le notizie più di una volta al giorno, 70% per i possessori di tablet.
Il formato più utilizzato - secondo la ricerca - sarebbe quello dell'aggregatore, preferito dal 73% degli intervistati e in forte ascesa rispetto alle preferenze del 2011, che si fermavano al 33%. A pagare sarebbero soprattutto le applicazioni branded news, quelle 'mono-testata', il cui gradimento crolla, nello stesso periodo, dal 60 al 40 percento. Fuori dal mercato della app, a prevalere come fonte e aggregatore di news sono i social network: il 43% dei lettori usa Facebook per controllare aggiornamenti di carattere informativo, in crescita di sette punti percentuali rispetto ai dati del 2011, a conferma del fatto - conclude il CEO di Mobiles Republic Gilles Raymond - che le news organisation «devono avere più canali di distribuzione news su mobile, così da raggiungere quel tipo di audience e continuare a crescere». Trovate tutti i dati in questa infografica.