(foto di Rita Alessia Dispoto)
Arrivato al 2015 con nuovi strumenti, nuove parole d’ordine e nuovi protagonisti, il giornalismo non è mai stato tanto necessario quanto in pericolo come oggi, nella storia recente. Se da un lato tecnologie e nuove piattaforme permettono di essere ovunque, nel momento in cui si racconta e quello in cui si apprende, dall’altro la figura del giornalista continua a rappresentare una minaccia per il potere, una testimonianza da piegare, sia che provenga dalle pagine di una testata che da un tweet di critica nei confronti di chi governa.
Secondo il Commitee to Protect Journalists (CPJ), i giornalisti costretti alla prigionia nel 2014 sono stati 221, contro gli 80 del 2000. Egitto, Bahrein, Messico, Arabia Saudita, Russia, ma anche Francia, in un’Europa che è tornata a vedere coi propri occhi l’orrore dell’intolleranza nei confronti della libera opinione con l’attacco a Charlie Hebdo: “Una battaglia globale per la libertà d’espressione è in pieno corso, e le vittime continuano a crescere”, spiegava l’executive director del CPJ Joel Simon parlando dei fatti di Parigi.
La risposta a un attacco alla libertà d’espressione si è spesso tramutata nella pretesa di maggior sorveglianza, generando un pericoloso paradosso. La tensione dei governi del mondo verso il controllo dei media si fa sempre più evidente anche in paesi in cui la costituzione tutela da sempre la libera informazione come Regno Unito e USA, secondo Clay Shirky. “La domanda essenziale è: come possono giornalisti e testate rafforzare la loro capacità di raccontare notizie importanti in un epoca di così grandi interferenze”.
Una risposta concreta a questa domanda, negli ultimi mesi, è arrivata da storie come il Datagate e le altre in cui il giornalismo si è servito di leak e della collaborazione transnazionale fra reporter e testate per portare alla luce dati e fatti complessi, come nel caso recente di Luxleaks e Swissleaks. È per questo che a “fonti coraggiose serviranno giornalisti coraggiosi”, in grado di avere capacità tecniche e rispondere velocemente alle esigenze della libera stampa, della tecnica, dell’etica giornalistica.
La libertà d’espressione infatti è messa a dura prova anche da nuove forme di terrorismo, che la minacciano anche dal punto di vista comunicativo. I video dello Stato Islamico, per esempio, sono da mesi tema di dibattito globale: com’è noto, l’ISIS ha allestito una macchina propagandistica tanto sofisticata da portare media e osservatori occidentali a interrogarsi sui suoi meccanismi, e sui propri limiti etici. Ma come ci si deve comportare, in una redazione, quando l’orrore finisce negli stessi luoghi online che siamo abituati ad abitare tranquillamente da anni, come le home dei giornali e le gallerie di YouTube? Ed è legittimo pubblicare propaganda, indiscriminatamente, correndo il rischio di fare da semplice “moltiplicatore” del messaggio propagandistico?
È uno dei grandi temi di quest’ultimo anno di giornalismo, che nel frattempo ha conosciuto vecchie e nuove tendenze: se da un lato il tema del ruolo del lettore nell’era dell’open web (uno dei fili conduttori dell’edizione del 2014 del Festival Internazionale del Giornalismo) ha continuato ad attestarsi trovando risposta concreta in fortunati casi di crowdfunding, partecipazione e inclusione della comunità nel racconto della notizia, dall’altra - dal punto di vista editoriale - si è affermata la tendenza alla nascita di servizi orientati al mobile, al rafforzamento dell’offerta per i millennial, del reportage investigativo multimediale, in uno scenario nei quali i vecchi media vedono perdere la fiducia dei lettori e devono imparare a competere con piattaforme non esclusivamente giornalistiche (da Google a Facebook) sia dal vista contenutistico che da quello commerciale.