Combattere la violenza di genere significa anche contrastare una cattiva narrazione dei cosiddetti “crimini passionali” da parte del giornalismo. E’ quanto è emerso nell’incontro “Non chiamatelo crimine di passione”, tenutosi nel pomeriggio del 6 aprile al Centro Servizi G.Alessi di Perugia. Moderato da Sofia Lotto Persio dell’International Business Times Uk, il dibattito ha fatto emergere come i media italiani e inglesi raccontano stupri e femminicidio in maniera errata.
“E’ difficile in Italia - ha affermato Claudia Torrisi di Chayn Italia - occuparsi di femminicidio per la mancanza di una raccolta dati metodica. Molte violenze restano sommerse mentre quelle raccontate dai media appaiono scollate dal contesto generale. L’uomo è visto come un mostro, la donna come una vittima debole senza capacità di autodeterminazione oppure come colei che ha provocato il delitto tramite il suo atteggiamento definito provocante. Vige la “rape culture”, ovvero la violenza sulle donne è considerata sexy, un episodio che può capitare”.
La situazione sembra essere simile in Gran Bretagna secondo gli studi di Cristiana Bedei, giornalista freelance: “La donna è rappresentata sempre in una posizione subordinata all’uomo. Gli episodi di femminicidio sono presentati come incidenti isolati non considerando che, secondo un rapporto dell’Onu del 2003, le donne sono i 2/3 delle vittime di violenze passionali”. Stefania Prandi, giornalista, ha analizzato il tema dal punto di vista iconografico. E’ emerso che le vittime di violenza sono fotografate sempre come deboli, in atti di difesa, come “se la vergogna fosse loro non degli uomini che le hanno uccise”. “Le foto - ha proseguito Prandi - confermano una visione sessualizzata della donna e lo stereotipo di quella che se l’è cercata”.
Qualcosa, però, comincia a cambiare. Sia in Italia che nell’universo UK si stanno facendo dei passi in avanti grazie alle linee guida imposte ai giornalisti e ad una stampa di nicchia sempre più progressista.
Luigi Lupo