di Andrea Iannuzzi - dal blog PuntoNave
Grazie all’amico e collega Dino Amenduni ho potuto sfogliare il documento di sintesi del rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione 2013, corredato di dati e tabelle che fotografano la cosiddetta “dieta mediatica” degli italiani.
La lettura del rapporto conferma, in termini di macrotendenze, ciò che più o meno già si sapeva: [tweetable]la quasi totalità dei giovani è connessa a Internet (e una buona parte di loro “fa cose” su Internet, vive, lavora, socializza, compra, si informa)[/tweetable], mentre il rapporto con la rete è inversamente proporzionale man mano che si alza l’età.
Tra i mezzi di comunicazione, è ancora la televisione a farla da padrona, [tweetable]mentre crescono i cosiddetti device mobili e continua il calo inesorabile della carta stampata[/tweetable]. Al riguardo, ci sono due dati che vale la pena di estrapolare per fotografare la crisi dei giornali.
1. [tweetable]Nella fascia d’età 14-29 anni (i lettori del presente e del futuro), la percentuale che si informa attraverso i quotidiani non raggiunge il 23%[/tweetable]
2. Dal 2007 al 2013 (sei anni) il consumo di quotidiani a pagamento è sceso dal 67% al 43,5% della popolazione. [tweetable]Se il trend dovesse rimanere costante, la carta stampata non ha più di 10 anni di vita[/tweetable].
Un altro dato che mi pare utile sottolineare è quello sulla cosiddetta “affidabilità” del giornalismo professionale e in particolare di quello prodotto dai media tradizionali, contrapposta alla presunta “inaffidabilità” delle notizie che circolano in rete. Ebbene, secondo gli italiani non solo non c’è questa differenza, ma è vero esattamente il contrario. Il rapporto dice infatti che per 7 persone su 10 (con leggera prevalenza tra i giovani e i 45-60enni) “gli apparati di informazione tradizionale tendono a manipolare le notizie”. Viceversa, solo un terzo degli italiani (percentuale che sale al 41% tra gli anziani) ritiene valida l’equazione non professionale = non attendibile per l’informazione che circola in rete.
Dunque, [tweetable]prepariamo il funerale del giornalismo? Niente affatto, prepariamoci a celebrarne una nuova vita[/tweetable] (e soprattutto a farlo un po’ di giornalismo come si deve, invece di continuare a discutere di aria fritta).
Lo stesso rapporto Censis ci conferma un dato importante: dal 2011 a oggi la percentuale di italiani che ha usato almeno uno dei tanti mezzi d’informazione disponibili è cresciuta del 5,6%, passando dall’89,8% al 95,4%. Ciò significa che la domanda di informazione – e quindi di giornalismo, in senso lato – non è affatto carente, anzi si avvantaggia dei numerosi canali a disposizione.
Si tratta semmai di adattarsi alle nuove esigenze, ben sintetizzate in questa “lezione” di Katharine Vyner, responsabile dell’edizione australiana del Guardian. Che in sintesi dice:
1. L’informazione non è più sincronica ma diacronica, non è più una merce posseduta e fissata dal proprietario dei mezzi editoriali, ma è un flusso aperto e libero da seguire.
2. [tweetable]I lettori spesso ne sanno più di chi scrive, cioè dei cosiddetti giornalisti[/tweetable]. Probabilmente ciò accadeva (in parte) anche nell’era analogica, ma i lettori sapienti non avevano modo di interagire, arricchire, correggere, sconfessare.
3. [tweetable]Affidabilità e attendibilità fanno rima con trasparenza[/tweetable]. Siamo tutti in una casa di vetro, gli utenti non solo vogliono la notizia, ma vogliono sapere come ci sei arrivato, quali errori hai commesso e come li hai corretti.
4. Essere aperti arricchisce il tuo prodotto e addirittura può darti degli scoop. Se una volta le fonti erano confidenziali e selezionate, ora il mondo là fuori pullula di fonti, di testimoni diretti, di “fact-checkers” gratuiti e collaborativi. Basta stare in contatto con loro, attraverso la rete.
5. Bisogna evitare la “fungibilità”, l’omologazione su quelle notizie che si trovano ovunque. Con un gioco di parole, è la differenza che fa la differenza (anche se è più facile dirlo che metterlo in pratica), quindi meglio cercare sentieri impervi ma inesplorati che seguire il mainstream.
6. [tweetable]Un bravo giornalista non può limitarsi a “guardare” la rete, la deve vivere, essere parte integrante dell’ecosistema web[/tweetable].
7. [tweetable]Il giornalismo costa e va retribuito, verissimo. Ma la soluzione non sono i muri, non sono i paywall[/tweetable]. Qual è la soluzione? Discuss.
8. Se mettiamo al centro l’utente, il lettore – ed è evidente che lo si debba fare – dobbiamo imparare a dargli tutto ciò che può essergli utile, in maniera trasparente. In che modo? Linkando, linkando, linkando sempre le fonti originali e chi ne sa più, concorrenza compresa. Non è in gioco l’attenzione, è in gioco la fiducia.
9. Non bisogna avere paura dei commenti. Sì certo, ci sono un sacco di troll in giro. Sì certo, la moderazione è faticosa. E poi cosa aggiungono alla notizia quei bla bla inconcludenti? I commenti, le interazioni non solo arricchiscono il contenuto originale, non solo fidelizzano la comunità di utenti attorno al brand, ma sono il sintomo che su quel sito c’è vita.
10. [tweetable]Il giornalismo è qualcosa che fai, non qualcosa che sei[/tweetable].
Infine, se volete un altro illustre punto di vista sul tema (e avete mezz’ora di tempo), vi consiglio di ascoltare questa lezione di Wolfgang Blau, anche lui del Guardian, dove si occupa di strategie digitali.