Giornalisti che odiano i giornalisti
La decisione del giornalista Glenn Greenwald di pubblicare sul Guardian le informazioni ottenute da Edward Snowden sui programmi di sorveglianza degli Stati Uniti ha stimolato in queste settimane diverse analisi che sono arrivate a includere molto più di quello che questa storia ha finora raccontato, investendo in gran parte anche il mondo stesso del giornalismo. Negli ultimi giorni il dibattito si è fatto più intenso a causa di numerose accuse mosse a Greenwald, soprattutto su NBC - Meet the Press da David Gregory («Perché non dovresti essere tu a essere incriminato?») e dal reporter Andrew Ross Sorkin («Quasi quasi lo arresterei») sulla CNBC. La questione, come rileva Eric Deggans su Poynter, ha costretto i media americani a una sorta di ‘autoanalisi’ che ha portato alla ridiscussione pubblica della professione e dello stessa idea di giornalismo - sia da un punto di vista strettamente 'filosofico' che da prospettive più concrete.
La natura lavorativa di Glenn Greenwald è stata fin da subito definita in maniera poco netta da alcuni dei media che hanno raccontato la vicenda NSA: attivista, blogger, la posizione dell'inglese è stata spesso considerata 'esterna' alla sfera del giornalismo, un’attività soggettiva o poco professionale minata dal suo incrollabile attivismo – cosa che, è il caso di ricordare, gli è valsa la 'fiducia' della fonte che lo ha contattato proprio in quanto 'sensibile' ai temi dei diritti e della sorveglianza. Secondo Jay Rosen, per esempio, insinuazioni come quelle di Gregory assomiglierebbero molto da vicino a un modo per allontanare il cronista inglese da una sorta di «club del giornalismo», così come i ripetuti 'attacchi' giunti anche da parte di altri colleghi che non hanno esitato a definirlo nei modi più svariati – fino al "polemista” coniato da Andrew Sullivan. Tutti argomenti, stando a Rosen, utilizzati per delegittimare il lavoro del cronista del Guardian: è il circoletto dei «Giornalisti contro il giornalismo», sintetizza duramente David Sirota su Salon, e in questo circolo il miglior giornalismo non è quello che sfida il potere o intende far luce su meccanismi oscuri, piuttosto quello che cerca di proteggerlo e tenere bassa l'attenzione sul suo operato.
Definisci ‘giornalista’ oggi
La Public Editor del New York Times Margaret Sullivan – come già visto nelle settimane scorse - ha criticato la definizione di «blogger» utilizzata sulla sua testata nel presentare Greenwald ritenendola sprezzante, «come dire 'non sei nei nostri'», pur senza giudicarla offensiva in senso generico. Ma cos'è un blogger? Dove finisce - se finisce - l'attivismo? E cosa fa, o non fa, un giornalista? La domanda ha animato più di un punto di vista: la stessa Sullivan è tornata sull'argomento questa settimana, definendo giornalista colui che «non si lascia intimidire dal rapporto conflittuale fra stampa e potere», una definizione che «merita rispetto e protezione», e che nelle parole di Jeff Jarvis, che affronta il tema sul suo BuzzMachine, si sposta dall'attore all'azione in sé, il vero momento in grado di definire la pratica giornalistica: chiunque ormai può agire da reporter, a date condizioni tecnologiche - rammenta Jarvis – tanto da rendere la ricerca di una definizione univoca di 'giornalista' quasi superflua, se non in termini strettamente legali: è il giornalismo a fare il giornalista, nel momento in cui presta il proprio servizio a una comunità informata, includendo chiunque voglia contribuire a questa 'missione'.
Ed è giornalista, continua, chi è in grado di dare un valore aggiunto ai processi di disvelamento delle voci incontrollate, di verifica dei fatti, di analisi e racconto di un contesto. È la trasformazione del giornalismo da prodotto di ‘manifattura’ a vero e proprio atto, concorda Deggans su Poynter: «Siamo al servizio di una società informata. Lo siamo sempre stati», conclude Jarvis. Ma come definire chi, rendendo un servizio alla comunità da semplice cittadino, arriva a fare del vero e proprio giornalismo? Un esempio è quello dei cosiddetti «random act of journalism», espressione coniata nel 2011 dal digital editor di NPR Andy Carvin nel descrivere fenomeni come quello dell'utente Twitter pakistano che ha lanciato, inavvertitamente, il primo aggiornamento sulla cattura di Osama Bin Laden: è evidente come uno scenario mediatico nel quale chiunque, con una connessione internet, può fare del giornalismo – e persino farne la storia – ‘a sua insaputa’, porti a una distinzione sempre meno marcata fra cittadini e giornalisti, fra blogger e professionisti. La tesi di Mathew Ingram su Paid Content è che proprio grazie alla rete il giornalismo sia diventato effettivamente ciò che si fa, e non più soltanto ciò che si è.
Se l’attivismo ‘minaccia’ l’oggettività
Un processo che avrebbe portato a qualcosa di veramente nuovo, ancora indefinito: "Stiamo cominciando a capire che si è giornalisti in vari modi, in varie forme e con diversi obiettivi" spiega Jay Rosen a David Carr in «Journalism, even when it's titled» sul New York Times, richiamando anche il tema – centralissimo - della partecipazione politica e ideale nel professionismo giornalistico. Nonostante l'attivismo sia una peculiarità rilevante nella carriera e nel lavoro di un giornalista, precisa il professore della NYU, non significa necessariamente che questo tipo di approccio - o vocazione - sia l'opposto di ciò che fa, o dovrebbe fare, un giornalista. Non importa cosa muova il lavoro di un reporter, gli fa eco John McQuaid su Forbes in «Why Glenn Greenwald Drives The Media Crazy»: il movente ideologico o il puro agnosticismo nei confronti di ciò su cui si lavora sono entrambi legittimi, l'importante è come si penetra all'interno della sfera pubblica, la validità del prodotto che si offre, il dibattito che riesce a generare, e non chi lo instilla.
Tanto più, rafforza la tesi Carr, se consideriamo l’equazione giornalista = «eunuco politico e ideologico» una vera «sciocchezza», dal momento che «non si tratta di essere giornalista o attivista - conferma Greenwald stesso al giornalista del Times - ma di una falsa dicotomia. La questione è essere onesti o disonesti: tutti gli attivisti non sono giornalisti, ma tutti i veri giornalisti sono attivisti». In un post sul suo blog su Rolling Stones, Matt Taibbi spiega che dal suo punto di vista «all journalism is advocacy journalism»: nel lavoro di ogni giornalista c'è sempre un movente legittimamente ideologico, un supporto lecito che può essere tenuto nascosto o mostrato fieramente - come nel caso di Greenwald - ma che non può rischiare di inficiare il lavoro di un professionsta - per usare le parole dell’esperto David Weinberg, «transparency is the new objectivity». Carr, nel finale del suo articolo per il NYT, conclude con un’obiezione che lascia però margini di manovra allo scetticismo: essere attivista - spiega - può spesso portare a muovere l'obiettivo principale del proprio operato dal disvelamento della verità al voler prevalere a livello retorico in una polemica, anche quando questa riguarda la stessa oggettività nella professione giornalistica - che è dove ci troviamo adesso.
Le questioni giuridiche: chi e cosa è ‘giornalista’?
In uno scenario fatto di atti di giornalismo inconsapevole e racconto della verità votato alla pubblicazione dei fatti in nome della democrazia o di un principio ideale soggettivo, la questione giuridica - valutata quella più strettamente nominalistica - diventa forse quella più complessa. I media americani si interrogano infatti sulla portata estensiva del Primo Emendamento, che difende la liberà d'espressione, cercando di commisurarla alla condizione di Greenwald come blogger, attivista, semplice cittadino che rischia di aver oltrepassato il confine della legittimità giuridica nel recinto della propria professione. Le questioni in gioco sono più d'una: come comportarsi davanti a chi viene considerato da molti nell'ambiente giornalistico e governativo un non-giornalista, quindi non legittimato a godere delle stesse tutele giuridiche? E quanto in là il giornalismo può spingersi nella pubblicazione di dati sensibili e confidenziali?
Come comportarsi, inoltre, quando il giornalista, semplicemente facendo il proprio mestiere, arriva a infrangere la legge? Carr e la Public Editor del suo giornale ammettono in sostanza che il giornalista (e solo il giornalista) è effettivamente l'attore più titolato a beneficiare delle garanzie del Primo Emendamento. Resta il problema di una definizione risolutoria, difficile da accordare - date vastità del tema e rivoluzione digitale in atto – e che di recente ha richiesto l’attenzione del parlamento USA. Felix Salmon ritiene che il tema sia da porre e discutere pubblicamente: è chiaro ormai - continua - che per molti Greenwald è un traditore, qualcuno da perseguire penalmente, e sebbene non si dica persuaso da queste tesi, ammette che i media dovrebbero necessariamente affrontare la questione, capire quali sono i limiti etici e legali del giornalismo, affrontare questa sorta di ‘campo minato’ dell’etica e delle definizioni: una materia difficile da dibattere pubblicamente, forse non priva di conseguenze per la professione, ma qualcosa di sicuramente più costruttivo degli attacchi finora mossi a Greenwald. La domanda alla quale rispondere resta quella di Kevin Kelleher su PandoDaily: «What the hell is a “real journalist” anyway?». E soprattutto: chi lo stabilisce?