L'analisi di un giornalista italiano nel paper “‘Newsroom Curators and Independent Storytellers: Content curation as a new form of journalism”, scritto per il Reuters Institute for the Study of Journalism.
Con l'esplosione del cosiddetto Web 2.0, l'enorme successo di reti sociali come Facebook e Twitter, l'aumento nella diffusione degli smartphone e la crescente importanza delle connessioni in mobilità, è aumentata in maniera esponenziale la quantità di informazioni disponibile per i giornalisti. I contenuti – testi, immagini e video – generati dagli utenti sono diventati così pervasivi che è diventato teoricamente possibile “coprire” un evento da lontano, solo con l'aiuto di un dispositivo elettronico e di una connessione a Internet, alcune liste create su Twitter e uno sguardo attento ai giusti video su YouTube o alle giuste pagine Facebook. E in alcuni casi, quando recarsi sulla scena degli eventi è troppo pericoloso o tecnicamente difficile, questa potrebbe anche essere l'unica soluzione.
Sia che si scelga di chiamarlo “information overload”, come fece Alvin Toffler negli anni '70 del secolo scorso (fu uno dei primi a usare questo termine, nel libro “Future Shock”), o “filter failure”, inadeguatezza dei filtri, secondo una più recente definizione di Clay Shirky, il problema di come reperire informazioni pertinenti fra le migliaia di piccoli frammenti di contenuto che si pubblicano ogni giorno online, non può essere sottovalutato.
I giornalisti hanno sempre dovuto affrontare il problema di come verificare una certa informazione o di come distinguere le fonti affidabili dalle altre, ma l'emergere della Rete e l'esplosione del consumo di news su Internet, ha portato con sé nuove sfide, rendendo ancora più difficile di prima distinguere fra verità, mezze verità e bugie e dando origine anche a nuovi problemi. Per esempio: come attribuire il giusto credito a chi ha caricato online un filmato e proteggere i suoi diritti quando il video viene incorporato da una news organization all'interno delle proprie pagine? Come stilare la sottile linea rossa fra citazione e plagio, in un'epoca in cui moltissime pubblicazioni usano lo stesso identico contenuto multimediale, scovato da qualche parte su Internet, a volte senza nemmeno citare la fonte?
Questa è una delle ragioni per cui una nuova figura professionale sta acquisendo sempre più importanza; il curatore di contenuti. Ma di cosa si occupa esattamente questa bizzarra figura che ha fatto di recente la sua apparizione in svariati articoli che trattano di come promuovere contenuti giornalistici (o di marketing)? Come suggerito dall'etimologia latina della parola, egli è qualcuno che essenzialmente, “si prende cura”. È una persona che seleziona le migliori informazioni trovate online in base alla loro qualità e rilevanza, le aggrega, linkandole alla fonte originale della news, e vi aggiunge contesto e analisi.
Il curatore non deve per forza essere un giornalista: lui o lei possono essere anche un blogger, o qualcuno attivo su twitter ma, poiché molte delle competenze necessarie per essere un buon curatore sono le stesse richieste per essere un buon reporter, i giornalisti sono forse i più adatti a ricoprire questo ruolo e molti di essi hanno già iniziato a sperimentare nuove forme di storytelling basate sulla content curation. In effetti, non si tratta di qualcosa di completamente nuovo: i giornalisti si sono sempre preoccupati di “curare i contenuti”, di solito suddividendo i vari compiti fra diversi professionisti: il reporter trova e seleziona le fonti e fornisce una prima bozza di contenuto; l'editor assembla, a volte integra e dà forma al materiale; il processo di verifica può essere effettuato dal reporter, dal redattore o da entrambi, a seconda delle procedure che vigono in redazione, o a seconda dei casi.
Grazie alla nascita e diffusione di nuove piattaforme di curation, come Storify (per citare la più celebre), il lavoro di raccolta e prima selezione dei contenuti, che nelle redazioni è di solito appannaggio di varie persone, oggi può essere teoricamente fatto anche da dei singoli – amatori o professionisti – che possiamo definire “independent storytellers”.
Selezionando immagini, video, link e altri tipi di contenuti generati dagli utenti e twittandoli in sequenza, o combinandoli in una narrazione cronologica più sofisticata su siti come Storify o Tumblr questi narratori indipendenti sono spesso in grado di offrire una prospettiva diversa da quella dei media mainstream. Complementare, in alcuni casi, alternativa in altri.
Se vista attraverso le lenti dei valori giornalistici tradizionali, il problema di questo tipo di cura dei contenuti è che non vi è più alcune pretesa di distacco e neutralità nella narrazione. L'obiettività, nel senso di essere equidistanti dai vari attori di una storia, non è più un traguardo. O, per meglio dire, l'oggettività è ora considerata corrispondere alla “trasparenza” nel dichiarare apertamente i propri punti di vista e le proprie preferenze.
Nel paper “Newsroom curators and independent storytellers: content curation as a new form of journalism” che ho scritto per il Reuters Institute for the Study of Jornalism, tratto nei dettagli il processo di raccolta, verifica e utilizzo dei contenuti generati dagli utenti nel corso di due eventi che hanno messo a dura prova i tradizionali metodi di copertura delle notizie.
Il primo sono i cosiddetti England Riots del 2011, i maggiori tumulti che hanno avuto luogo in Uk dagli anni '80, su una scala tale che sarebbe stato necessario un esercito di giornalisti per coprirli coi metodo tradizionali; il secondo è invece Occupy Wall Street, il movimento spontaneo di molti cittadini americani preoccupati e infuriati per la costante crescita delle disuguaglianze nella loro nazione.
Per ciascuno di questi eventi, analizzo la copertura data (online) da alcuni “independent storytellers” e da alcuni celebri quotidiani e emittenti televisive: il Guardian e la BBC nel caso dei riot e il Washington Post per quanto riguarda Ows. Mi concentro in particolare su alcuni episodi che hanno caratterizzato la protesta, venendo percepiti come emblematici dell'evento, o che hanno rappresentato un momento di svolta per quelli coinvolti.
Nel caso di Occupy Wall Street, ad esempio, per molti osservatori il raid poliziesco e il conseguente sgombero del parco cittadino di Zuccotti Park, a New York, nella notte del 15 novembre 2011 ha rappresentato un punto di svolta: un colpo da cui poi il movimento ha faticato a riprendersi. Allo stesso tempo, malgrado la sua importanza, l'evento è stato difficile da seguire per i giornalisti, dato che la polizia li ha tenuti lontani dalla scena degli eventi, ignorando le tessere stampa e le credenziali giornalistiche mostrate agli agenti.
È questa la ragione per cui piattaforme come Storify, in quel momento hanno “salvato le news” (come titolò il sito ReadWriteWeb), consentendo a freelancer, professionisti e studenti di giornalismo di ricostruire quanto stava accadendo grazie alle immagini e ai video caricato online via smartphone dai dimostranti. Gli stessi media mainstream si sono avvantaggiati della ricchezza di UGC a disposizione, mostrando video e immagini amatoriali, e a volte anche incorporando nelle loro pagine delle storie realizzate con Storify.
Naturalmente, quest'accresciuta partecipazione e il ruolo sempre più incisivo svolto dai contenuti generati dagli utenti nella confezione delle notizie, porta con sé sia opportunità che potenziali pericoli. Per le organizzazioni di news, uno dei pericoli è quello di dare per scontato che ciò che si trova e si ode sui social media sia la sola e unica “voce della folla”, senza prendersi la briga di analizzare in profondità altri possibili punti di vista. Le risorse in redazione sono sempre più scarse e la tentazione potrebbe essere reale, ma non tutti sono su Internet, specie nelle nazioni in via di sviluppo, e anche chi è presente non è detto che voglia o possa testimoniare online quello che sta accadendo, sia a causa della censura che per paura di rappresaglie.
Per quanto riguarda i “narratori indipendenti”, invece, prima di attribuire ad essi un ruolo di castigatori delle deficienze dei media, o di produttori di informazione alternativa, occorre parecchia cautela. Non è detto, infatti, che essi possiedano le stesse abilità di verifica degli UGC che si trovano ormai nelle redazioni più strutturate (anche se non mancano i casi, anche recenti, di granchi clamorosi presi da colossi mediatici) per cui potrebbero diffondere inconsapevolmente materiale falso. Oppure potrebbero farlo in maniera consapevole, sfruttando il palcoscenico offerto da Storify, Tumblr o altre piattaforme come strumento di propaganda, più che giornalistico, aiutati in questo anche da una certa opacità nella paternità delle storie che circolano sulle piattaforme di curation, che non aiuta il lettore a comprendere sempre con chiarezza le “affiliazioni” e i punti di vista dell'autore.
C'è poi un aspetto che viene spesso trascurato, ma che è fondamentale: quello della preservazione dei contenuti. I giornalisti tendono ad assumere che i propri articoli siano eterni, finché sono conservati negli archivi. Ma per quanto riguarda l'online, il rischio che una parte dei contenuti generati dagli utenti scompaia dopo un certo tempo – vuoi per ragioni di copyright, o perché rimosso da chi lo ha caricato – è concreto. Questo renderebbe impossibile il tipo di analisi “a freddo”, ex post, di cui il progetto Reading the Riots del Guardian rappresenta l'esempio più fulgido, ma non solo; il rischio è che, via via che sempre più spesso le breaking news sono narrate attraverso forme narrative come i liveblog, sotto la dicitura “come mostra questo video girato dai manifestanti”, dopo un anno o poco più il lettore incontri solo un irritante: “video not found”.