Il 12 febbraio Spotify ha fatto il suo ingresso nel mercato italiano. Si tratta di uno strumento che all’estero, dove già era disponibile, ha rivoluzionato il consumo e la condivisione - ovviamente social oriented - della musica: indicizzazione di librerie personali, sistema di following in stile Twitter, stream con le attività dei propri contatti, ma soprattutto l'ascolto gratuito di (praticamente) tutta la musica mondiale. Ascolto freemium, per la precisione: la riproduzione in streaming delle playlist scelte, più la possibilità, a pagamento, dell'ascolto offline, su più dispositivi e libero da messaggi pubblicitari. Una rivoluzione per utenti, artisti e case discografiche, della quale si cominciano ancora solo adesso a scorgere potenzialità e problematiche. Ed è soltanto la più recente.
D'altro canto l'industria musicale, negli ultimi anni, sembra aver molto da condividere con quella giornalistica e editoriale in genere. Una produzione spesso relegata al rango di "bene di lusso", che combina l'aspetto immateriale (l'ascolto, come la lettura) a quello fisico (il disco e la carta, minacciati dal supporto digitale), e che si è trovata con l'irruzione e l'espansione delle connessioni a banda larga a dover fare i conti con un panorama del tutto rinnovato, alterato dalla disponibilità di qualsiasi tipo di contenuto a costo zero - spesso in modo illegale - e al cospetto di un'utenza diversa, più stimolata dalle connessioni interpersonali da social network, la smania da condivisione e un'estrema facilità di produzione e pubblicizzazione, a livelli sostanzialmente professionali, di materiale 'domestico'.
La crisi, intanto, ha fatto il resto: l'aspirazione al "vivere di sola musica" d’ogni artista ha trovato, negli ultimi anni, sempre più motivi di derisione di fronte a una situazione economica di enorme gravità, che combinata alla naturale modificazione dei gusti e del sentimento artistico dell'epoca e ai veri e propri nuovi paradigmi dell'ascolto musicale - portati dalle già citate innovazioni - sta spingendo adesso la scena musicale a una fase di passaggio che sembra avere tutti i connotati - così, ancora, come per il giornalismo - di un passaggio epocale: la sensazione è che non si tratti solo del giro di boa di un decennio artistico, il semplice avvicendarsi di gusti e generi che hanno portato dai barocchismi del rock progressivo al nichilismo punk, dal disimpegno elettronico agli scorci di quartiere del rap, alla rabbia grunge o alle adunate techno-hardcore. Ma qualcosa di più.
Quale prospettiva, dunque, per il futuro della musica - e chi intende farne un mestiere oggi? Quali i vantaggi, e gli svantaggi, portati da questi cambiamenti? E quali le differenze fra gli scenari internazionali e quello italiano? Queste e altre domande saranno la spina dorsale del dibattito organizzato da XL al Festival Internazionale del Giornalismo, in un panel moderato dal direttore della testata Luca Valtorta in compagnia di 'pezzi' di alcuni delle principali rock band italiane: Manuel Agnelli degli Afterhours, Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, Giovanni Gulino dei Marta sui Tubi, Roberta Sammarelli dei Verdena e Tommaso Colliva dei Calibro 35. Titolo dell'evento, ovviamente, “La musica ha un futuro?”: domenica 28 aprile, alle 21, al Teatro Morlacchi.