Diario dall’Afghanistan

“E’ evidente che siamo tutti emozionati e, per questo, vorrei ringraziarvi” dice una ragazza del pubblico verso la fine dell’incontro che si è svolto alle ore 17.30 nella Sala dei Notari. In effetti, ascoltare dal vivo le esperienze vissute da un gruppo di reporter di guerra non può che essere emozionante, soprattutto se si tratta di professionisti del calibro dell’inviato Ettore Mo,il fotoreporter  Luigi Baldelli che lo ha accompagnato sempre, Domenico Affinito e Mimmo Candito di Reporter Senza Frontiere: la loro capacità di raccontare i fatti si fonde con un senso  di umanità profonda, di empatia con le persone, che solo chi vive certe situazioni può maturare.

Riferendosi al fatto che la figura del giornalista inviato in zone di guerra è ormai scomparsa, si autodefiniscono ironicamente “dinosauri”, lamentando che le maggiori testate italiane ed estere hanno tagliato quasi tutti i corrispondenti all’estero, parzialmente per una questione economica, ma non solo: raccontare la testimonianza diretta e reale di ciò che succede in guerra è un pericolo per chi è al potere, per chi alla guerra ci gioca spostando le pedine dall’ufficio.

Mimmo Candito, davanti ad un pubblico religiosamente attento e silenzioso, narra la vicenda di William Russell, giornalista irlandese che partì per la guerra di Crimea con lo scopo di scriverne per il Times; nel 1854, per la prima volta, un giornalista, dal campo di battaglia, racconta la tragedia della guerra ai cittadini - che ne avevano una visione quasi mitologica all’epoca – e, addirittura, azzarda l’espressione della opinione, caldeggiando per le dimissioni del governo britannico.

Una vera e propria proclamazione di libertà rispetto al potere e al diritto delle persone all’informazione che, al contrario di quanto si può pensare, non è trascurata mai dall’opinione pubblica: se gli americani hanno lasciato Saigon è perché i giornalisti hanno potuto raccontare ciò che accadeva e la gente rimasta a casa leggeva, pensava, protestava contro la guerra del Vietnam.

Con toni amarissimi gli ospiti in sala ci fanno capire che oggi questo non succede: le autorità censurano, i giornalisti si lasciano condizionare dall’arrivare primi, anche a discapito del racconto della realtà e, per esempio, nessuno fra loro ci fa sapere che la maggior parte delle vittime nelle guerre oggi sono i civili, non i soldati.

Tantomeno ce lo fanno vedere. Infatti, racconta Candito, di quella volta in Iraq in cui ai giornalisti italiani non fu detto nulla, mentre quelli australiani furono espulsi perché avevano con loro delle telecamere ed “ignori che in guerra si muore se non lo vedi”. La potenza delle immagini rispetto alla parola scritta è incredibile ed offre anche potenzialità di altro genere, come conferma Affinito che preferisce usare la videocamera nei suoi report e che, mentre tutti si lanciavano su piazza Syntagma l’anno scorso, ha pensato di spostarsi e fare notizia con quello che succedeva contemporaneamente negli altri quartieri di Atene.

Con  la pubblicazione di Diario dall’Afghanistan, Ettore Mo ha celebrato 40 anni di carriera giornalistica: un libro che, oltre ad emergere per la qualità della scrittura, stupisce e colpisce per i contenuti quando dice che per un reporter non c’è niente di peggio che essere bloccati in hotel perché lo hanno ammonito riguardo l’insicurezza delle strade; quando racconta di Peshawar, città del Pakistan al confine con l’Afghanistan, in cui i giornalisti erano bloccati perché impossibilitati a ricevere il visto da Mosca; quando, per andare a incontrare il Leone del Panshir - un guerriero carismatico che contribuì alla liberazione del paese dalle truppe sovietiche - al dorso di un mulo che aveva pagato 1000 dollari e battezzato Taraki, l’allora presidente in carica.

Emoziona veramente ascoltare Mo: una fedeltà assoluta per la verità emerge dalle sue parole, il gusto per l’aneddoto dal suo sorriso, una dolcezza incredibile dal suo sguardo ed un entusiasmo per la vita dalla sua stessa biografia.

Maria Teresa Lacroce