Questa settimana in RoundUp: il Guardian punta sulla comunità, lancia un programma di membership e la costruzione di uno spazio d'incontro tra redazione e lettori. Ma quanti "Guardian" possono permettersi un modello simile? Intanto c'è chi ci prova col paywall, che si rivela ancora uno strumento - e un mercato - vivissimo: Beacon, per esempio, permette di far calare il paywall su un singolo pezzo o autore.
Il Guardian e la comunità
Mercoledì scorso il direttore del Guardian Alan Rusbridger ha lanciato un programma d’abbonamenti che permetterà ai sottoscrittori di far parte del “club” della testata inglese (“The Guardian Membership”). L’idea è quella di creare una comunità sempre più fedele - e concretamente coesa - attraverso un piano che prevede l’offerta di varie attività, tra corsi e eventi, che verranno ospitati dal 2016 nel “Guardian Space”, una struttura di quasi 3 mila metri quadrati che il quotidiano sta ristrutturando con l’intento di farne il punto d’incontro tra il giornale e i lettori. Diventare parte di “The Guardian Membership” costerà zero per il piano “Friends” (che permette di prenotare gli eventi live e tenersi aggiornato sulla community), circa 18 euro al mese per il piano “Partners” (sconti sugli eventi e priorità sugli altri abbonati) e 75 euro circa per il pacchetto “Patrons” (che aggiunge pass per i backstage e tour guidati in redazione).
Il Guardian non è nuovo a iniziative “fuori dalle mura”, e proprio il riscontro significativo in termini di presenze ha incoraggiato la società a puntare sul marchio come esperienza “totale” e collettiva. D’altro canto, come nota Ken Doctor, la circolazione cartacea della testata è ferma a 200 mila copie (più i 100 mila abbonati digitali) a dispetto delle 105 milioni di visite uniche che il sito dichiara di raggiungere. L’obiettivo quindi - continua Doctor - è cercare di lavorare su questo delta che in termini digitali e economici appare difficile da colmare col classico giornalismo. Da qui l’idea, spiega ancora Rusbridger sul sito, di prendere spunto dall’esempio dell’industria musicale, che a una inesorabile crescita dei supporti digitali - abbinato alla fruizione gratuita, come per le news online - ha visto comunque crescere la voglia di eventi dal vivo e di condivisione concreta («The more digital the world becomes, so the appetite for physical meet-ups and live events grows»). Concetto che su Twitter Jay Rosen sintetizza così:
Related to Guardian's membership push: Digital makes the cost of a copy zero, pushing up the value of live events, which cannot be copied.
— Jay Rosen (@jayrosen_nyu) 10 Settembre 2014
Tra community e paywall
Di certo, operazioni del genere sembrano non essere alla portata di tutti: il Guardian è da tempo definita “sentinella liberal” del giornalismo britannico (e più in generale di quello lingua inglese), è un marchio fortemente riconoscibile e news outlet indiscusso protagonista nei casi giornalistici più rilevanti degli ultimi anni (da Wikileaks al datagate), che lo hanno portato a vincere il premio Pulitzer nel 2013. Inoltre la testata è da tempo all’opera in un progetto di “espansione territoriale” (di cui avevamo già parlato qui) che lo ha portato a rafforzare le redazioni di USA e Australia e a competere con Daily Mail e New York Times per il primato di sito d’informazione più letto al mondo. “The Guardian Membership” è un modo per capitalizzare tutto questo e un esempio che non resterà inosservato in molte altre redazioni: già negli ultimi tempi si segnalano le iniziative del Wall Street Journal (che ha lanciato il piano “WSJ+”: tour in redazione, sconti, ebook gratis) e di Slate (“SlatePlus”, che garantisce accesso speciale per alcuni contenuti). La domanda, però, è ineludibile: quanti altri “Guardian” possono permettersi di sperimentare soluzioni del genere?
È importante rilevare, peraltro, che i contenuti del sito resteranno comunque gratuiti, come a lasciar intuire che per giornalismo, nel 2014, non si può più solo intendere il flusso di informazioni in uscita da una redazione, a prescindere dal supporto sul quale arrivano (a proposito di supporti: da leggere questa analisi di Mike Ananny e Kate Crawford su come le news per mobile vengono plasmate dai designer). La proprietà del giornale, in termini di sussistenza economica, si è sempre detta contraria all’idea del paywall (lasciando intravedere qualche piccola apertura solo l’anno scorso), malgrado il sistema continui comunque a essere solidamente al centro di una consistente fetta del mercato editoriale. Sempre Ken Doctor questa settimana parla su NiemanLab dell’acquisizione di Press+ da parte di PianoMedia: si tratta di aziende che i paywall - tecnicamente - li costruiscono, e che con questa mossa diventano insieme la più grande company del settore (con 645 “muri” totali in giro per il mondo). La notizia - per quanto a prima vista tecnica e poco rilevante - mostra due segnali, secondo l’autore: il paywall è vivo, vegeto e appetibile, e a farne un business sono società non propriamente giornalistiche, evidenziando tutta la lentezza dei media group nel lanciarsi sul mercato (questo in particolare, come in altri), specie per quelle testate che sul paywall hanno investito molto del loro futuro: se le entrate derivanti dai lettori digitali sono davvero così importanti, continua Doctor, perché non costruirsi un proprio sistema?
Il paywall "individuale"
Altre company, negli ultimi tempi, sembrano invece aver preferito una specie di “paywall individuale”. Il trend è rilevato da Ricardo Bilton su Digiday, che questa settimana parla del caso di Beacon. Sorta di KickStarter per autori e giornalisti, Beacon permette a chiunque di proporre il proprio pezzo e vederselo finanziare tramite crowdfunding - finora sono 250 gli utenti iscritti, che hanno raccolto in totale ben 500 mila dollari. La novità - appunto - è che Beacon sta cominciando a lavorare direttamente coi publisher: Huffington Post - come già riportato la settimana scorsa - ha usato la piattaforma per finanziare la propria copertura mediatica sulle vicende di Ferguson, superando i 40 mila dollari. TechDirt, ancora, ha raccolto 70 mila dollari per un post sul dibattito attorno alla net neutrality. «Il giornalismo costa», esordisce Bilton, e anche se non è detto funzioni per tutti (e non è chiarissimo il motivo per cui una media company debba ricorrere al pubblico per remunerare un inviato), il sistema può tranquillamente diventare una delle opzioni praticabili.
In questi giorni Esquire - la cui lettura online è gratuita - ha rilanciato un articolo del 2003 sugli attacchi dell’11 settembre e la cosiddetta foto del “falling man”, rendendolo a pagamento. È un altro caso di paywall limitato a un solo post (costo: 2.99 dollari) che ha già avuto un precedente per la testata (l’anno scorso, con “The Prophet” a 1.99 dollari) e che contribuirà a finanziare una borsa di studio della Maquette University dedicata a James Foley, il corrispondente americano ucciso dai terroristi dello Stato Islamico nell’agosto scorso. Mathew Ingram su Gigaom crede che l’iniziativa - a prescindere dal caso specifico - possa essere una buona idea: interessante come esperimento editoriale, utile come incoraggiamento alla donazione per buone cause.