Questa settimana in RoundUp: la nuova piattaforma del New Yorker per fonti che vogliono mantenere l'anonimato; la domanda di Mathew Ingram: e se mettessimo in discussione il concetto di 'media di massa?; il ritorno di Snow Fall, con l'analisi di pro e contro; Fortune passa in rassegna sette casi editoriali online di successo, da HuffPost a Gawker.
Una casa per fonti anonime al New Yorker
L'attualità italiana nelle ultime settimane è stata dominata dal dibattito attorno all'anonimato online, con diverse posizioni - sempre più accettate - che vedono nella protezione delle proprie generalità e del proprio lavoro in rete un ostacolo alla libera discussione e al vivere civile in Internet. Il diritto alla riservatezza dei dati torna di grande attualità negli Stati Uniti - ma da un punto di vista diverso - con il lancio, da parte del New Yorker, di Strongbox. Si tratta di una piattaforma di archiviazione di documenti e messaggi che permette di inviare al magazine contenuti in sicurezza e completo anonimato. Basato sul progetto DeadDrop messo in piedi da Aaron Swartz e Kevin Polusen, Strongbox si avvarrà di un sistema di ricezione e consultazione dei documenti studiato su più fasi, che con il passaggio da un supporto all'altro, l'utilizzo della rete Tor e la protezione dell'identità del mittente tramite l'adozione di username casuali cifrate, dovrebbe portare all’attenzione del New Yorker contenuti - su server separati dal resto delle infrastrutture Condé Nast - ‘sensibili’ il cui invio richiede la massima discrezione.
Il primo paragone è ovviamente quello con Wikileaks, la cui sicurezza sui dati, fa notare Alex Fitzpatrick su Mashable, è stata fortemente minata dal caso Bradley Manninng, e l'operatività del progetto compromessa dalla posizione giudiziaria di Julian Assange. Semplicemente, si legge su NewYorker.com, un'estensione del concetto di casella postale, una sorta di evoluzione naturale del contact form che dall'indirizzo all'interno della copertina del primo numero, nel 1925, ha portato all'inserimento del numero di telefono (1928) e dell'indirizzo email (1998). E adesso, dunque, a una sorta di ‘Dropbox’ per fonti che intendono mantenere una «certa dose di anonimato» («a reasonable amount of anonymity»), spiega in modo forse un po' ambiguo il post di lancio - incuriosendo il giornalista Greg Mitchel che si chiede quanto sia effettivamente ‘forte’ l'impenetrabilità di Strongbox. Con curioso tempismo, sicuramente del tutto involontario, il progetto viene varato proprio nella settimana in cui si scopre che l'amministrazione Obama, e in particolare il Dipartimento di Giustizia, ha segretamente intercettato per due mesi le linee telefoniche della AP.
E se i mass media fossero un’anomalia della Storia?
È la rivisitazione di un rapporto tutto nuovo tra il singolo e l'universo mediatico, multidirezionale, che fa dei media di massa il terminale ultimo di contenuti e documenti ma non più la piattaforma che detiene l'appannaggio esclusivo delle notizie e delle fonti, anche le più sensibili. Ma se fosse lo stesso concetto di 'mass media' a esser messo in discussione? Se lo chiede questa settimana Mathew Ingram su Paid Content, prendendo le mosse da uno studio di Lee Humphreys sui modelli comunicativi antecedenti all'industria dell'informazione così come la conosciamo. La tesi del post si risolve nella domanda del titolo: e se i mass media fossero solo un'anomalia storica? Siamo infatti portati a pensare che una volta raggiunto questo tipo di produzione mediatica non esistano altre alternative, come se il mercato di tv e giornali del '900 fosse il risultato vincente, perfetto e definitivo del progresso storico nel settore, destinato a durare per sempre. Certezze che mese dopo mese, in questi anni, cominciano a farsi sempre meno incrollabili per mano di servizi - e dei nuovi modelli comunicativi - imposti da strumenti come Facebook e Twitter.
«C'è spesso una sorta di pervasiva nostalgia per 'i bei vecchi tempi', quando tv e carta dominavano il panorama mediatico», esordisce Ingram. Ma la ricerca di Humphreys descrive come la comunicazione, per lungo tempo, sia stata guidata da un tipo di produzione monodirezionale, più personale, trovando il proprio medium nei diari privati, che nel corso del XIX secolo hanno cominciato a esser scambiati e letti divenendo un prodotto a uso pubblico e personale allo stesso tempo, trovando poi la più forte affermazione con l'avvento della psicologia freudiana. Un sistema di scrittura personale - che trovava riflessi anche nella prima produzione giornalistica e letteraria del ‘900 - che si può assimilare a quella degli odierni blog. O, ancora meglio, a una «più lenta e meno diffusa versione di Twitter». La morale, in sostanza, è chiedersi se si debba puntare a un futuro sostenibile ‘a tutti i costi’ per un sistema che ha saputo imporsi nei decenni passati, ma che non è - nell’ipotesi di Ingram - necessariamente destinato a sopravvivere per sempre - dal momento che già oggi i prodotti legati a questo modello riescono difficilmente a trovare un posizionamento vantaggioso sul mercato. Per tornare a un dibattito che ha preso piede nei giorni scorsi, e che a rtimi alternati si riaffaccia sull'attualità giornalistica online, è sia il periodo migliore che il peggiore per fare giornalismo.
Perché ‘Snow Fall’ è (o no) il futuro della stampa
Il settore è infatti alle prese con un processo di radicale ricostruzione del giornalismo come prodotto per lettori e inserzionisti, in un quadro dove i primi sono in grado di sostituire quasi completamente i media, e la pubblicità tende a spostarsi sempre più verso il mobile, a prescindere dal tipo di contenuto. Pochi mesi fa il New York Times ha pubblicato un articolo longread, multimediale, innovativo e apprezzato da lettori e 'critica': si tratta del noto “Snow fall” di John Branch, visitato da circa 3 milioni di utenti unici e vincitore di un Pulitzer nell’aprile scorso. Il progetto, di cui abbiamo già parlato in RoundUp, è tornato d'attualità in questi giorni, quando Om Malik su GigaOM ne ha parlato come via - per il New York Times, e quindi per tutta la stampa tradizionale - per reinventarsi e combattere la concorrenza alla BuzzFeed. Secondo l’Executive Editor del Times Abramson Snow Fall è infatti diventato una sorta di precedente che adesso tutti vorrebbero emulare (un esempio di queste ore è quello di Newsweek.com), ma che non tutti possono permettersi di mettere in piedi, impegnando mesi e mesi di lavoro per un prodotto sostanzialmente gratuito, e «25 milioni di dollari» per serializzare il format e produrre «100 progetti in stille Snow Fall». Un vantaggio che in termini di possibilità e brand solo testate come il NYT possono capitalizzare: il suggerimento di Om è fare di questo formato editoriale un modello dal quale partire, un nuovo core business da piazzare sul mercato come un prodotto hollywoodiano, con tanto di product placement (il creative advertising), canali di distribuzione (multipiattaforma), e star (le grandi firme). Esattamente come per i film.
Abbandonare per sempre l'idea di un giornalismo stampa-centrico, lasciandosi alle spalle l'eredità delle vecchie strutture redazionali e giocare da 'nativi', con un team duttile capace di produrre contenuti su più media. Di tutt'altro avviso Hamish McKenzie su PandoDaily, secondo il quale il caso Snow Fall, e la curiosità creatasi attorno al progetto, non sarebbero facilmente replicabili. E ben poco potrebbero, in aggiunta - in uno scenario economico talmente depressivo - per invertire la rotta della discendente raccolta pubblicitaria: in un mercato nel quale la news industry non è più appetibile per gli inserzionisti, non sarà «un'inserzione multimediale per Land Rover in uno 'Snow Fall' ad aggiustare tutto». È un intero modello da ripensare, secondo McKenzie, in un'industria che deve imparare a fare i conti con un'era post-pubblicitaria (a tal proposito, da rivedere il workshop organizzato in collaborazione con la Columbia Journalism Review al Festival Internazionale del Giornalismo: “Beyond advertising” - video). Forse la soluzione è il paywall, conclude l'autore, forse abbonamenti più convenienti e redazioni più piccole, o l'e-commerce. «Ma di sicuro non 100 variazioni della stessa hit».
Chi sta facendo i soldi in rete?
Gli esperimenti, in tal senso, sono numerosi e non tutti fallimentari. Questa settimana JP Mangalindan analizza per Fortune della CNN sette casi di media online, i loro risultati in termini di contatti e ritorni economici e le loro prospettive future. Si tratta dei gruppi più noti, tutti americani, che in modo diverso e lavorando in più settori cercano di offrire prodotti ben riconoscibili e possibilmente di successo. Il primo caso è quello dell'Huffington Post, 73 milioni di lettori nel mondo, più di 500 impiegati e noto per la sua associazione di contenuti alti - che le sono valsi un Pulitzer - e bassi. Un case history nato da un investimento di un milione di dollari - cui hanno fatto seguito altri 20, poi i 315 di AOL - redditizio fino al 2010, anno antecedente all'acquisizione da parte del service provider americano. Secondo caso, quello di Gawker Media: in rete dal 2001, letto da 40 milioni di utenti e la cui missione, come da tagline del sito, è «Oggi gossip, domani news». Fondato da Nick Denton (da casa propria) conta ora circa 150 impiegati e si basa su un programma di brand advertising e e-commerce sui diversi siti della piattaforma (Jezebel, Gizmodo, Deadspin) che concorre ai ricavi, in segno positivo rispetto ai costi, sin dal 2006. In progetto l'espansione della piattaforma di publishing e discussione Kinja.
Proprio un ex collaboratore di Gawker, Choire Sicha, nel 2009 ha dato vita con Alex Balk a The Awl, brillante blog che conta 3 milioni di visite mensili (dati di gennaio) pensato da Sicha dopo aver constatato che nelle altre redazioni, per lui e gente come lui, non c'era più posto: «We finally just decided to stop working for those people who didn't care about us». Business model basato su semplici inserzioni e qualche advertorial, The Awl non fornisce numeri in termini di dollari, ma pare comunque che le finanze siano attualmente sotto controllo. Inizierà a essere redditizio solo da fine anno il gruppo Vox Media - online dal 2003, sotto forma di blog a carattere sportivo - del quale fanno parte il sito specializzato in sport SB Nation, il portale hi tech TheVerge e il recentissimo Polygon (videogame-focused). Il gruppo si sta impegnando nella creazione di progetti pubblicitari innovativi così da invogliare all’acquisto di spazi gli inserzionisti - per i quali, spiega il CEO Jim Bankoff, «web advertising sucks». È il modello BuzzFeed, altro caso analizzato da Mangalindan, che fa del native advertising e della pubblicità alternativa una grossa fonte d'attrazione per grandi brand. Più di 40 milioni di visitatori unici a marzo, BuzzFeed (di cui abbiamo parlato ampiamente e che è stato presentato al Festival Internazionale del Giornalismo dalla Executive Editor Doree Shafrir - video) nasce dall'idea del co-founder di HuffPost Jonah Peretti, che con gatti (qui un'inchiesta di questa settimana su PBS sul perché i felini «dominano internet») e scoop politici dovrebbe - secondo il Wall Street Journal - arrivare a fine anno con entrate pari a 40 milioni di dollari.
Da seguire, infine, anche i modelli di Business Insider (24 milioni di lettori, qualche profitto nel primo trimestre del 2013) e SAY Media, il gruppo del sito ReadWrite (20 milioni di utenti), che ha intenzioni di puntare alla vendita di prodotti singoli su vari siti.