È opinione ormai piuttosto comune considerare Twitter, e i social network in genere, strumenti fondamentali nell'opera di divulgazione, discussione e reperimento delle notizie per i media - che si tratti di pure player dell'ambiente online o vecchie testate cartacee alla ricerca di un presidio in rete. Lo spunto di discussione, sempre nuovo e irrisolto, sta però nel dilemma che ruota attorno alla coniugazione di queste piattaforme al lavoro e all’etica giornalistica: è necessario, ad esempio, tracciare delle linee guida per il comportamento delle testate, e dei loro collaboratori e redattori, su Twitter? E quanto di questo sforzo è un lecito esercizio di omologazione allo stile e alle policy della "casa madre", o una fastidiosa limitazione del libero utente nei confronti delle possibilità che il mezzo ha da offrire? Quale l'approccio dei diversi gruppi editoriali?
La notizia questa settimana è che il New York Times ammette di non aver bisogno di regolare la vita "social" dei propri giornalisti: a spiegarne le ragioni è Phil Corbett, Associate Managing Editor del NYT, intervistato da Jeff Sonderman su Poynter: «Non abbiamo una policy formale, scritta dettagliatamente. Ne abbiamo parlato ma finora abbiamo deciso di non farlo», spiega Corbett. Al Times, continua, suonava contraddittorio chiedere ai giornalisti di prendere familiarità col mezzo, elogiandone le enormi potenzialità, per poi costringerli entro il tracciato di un «Qui trovi 27 regole che è meglio non violare se non vuoi metterti nei guai» - testuale. Il messaggio, semplicemente, è ‘ponderatezza’: «Devono capire che i social media sono, fondamentalmente, un'attività pubblica, non privata, perché le persone sanno che lavorano per il Times, che sono giornalisti del Times, e che verranno identificati col Times. Dovrebbero ricordarselo sempre e stare attenti a non minare la loro credibilità. E finora questo approccio sembra funzionare, per noi». Insomma, riassumendo brutalmente con Mediabistro: «New York Times’ Social Media Policy: Use Common Sense, Idiot».
Metodo diverso, invece, per Associated Press. A parlarne qualche giorno fa è direttamente il Social Media Editor Eric Carvin in un’intervista su Ebyline.biz. La testata ha cambiato e rinforzato da ormai un anno la propria policy con una serie di norme, quali l'introduzione di linee guida sui retweet e sulle correzioni dei tweet ‘sbagliati’: «Lo staff di AP non dovrebbe retwittare opinioni forti senza trovare un modo per contestualizzarle. E per le correzioni, il membro dello staff che sbaglia è incoraggiato a pubblicare quanto prima un tweet o un post di spiegazioni, ammettendo l’errore. Queste due linee sono la chiave per proteggere l'integrità di AP». Certo, spiega Carvin, è possibile condividere osservazioni non proprie, ma con attenzione e arguzia: «Possono inserire qualche parola prima di ‘RT’ per spiegare che si tratta della citazione di un'opinione altrui», Twitter - precisa - è ormai una comunità piuttosto grande per dare per scontata, per tutti, l'affermazione ‘RT is not endorsement’, «e per noi è necessario ripulire le affermazioni pubbliche da ogni ombra di potenziale faziosità». AP, dunque, richiede ai propri collaboratori un tipo di comportamento commisurato alla carica lavorativa, a tutela del nome e della tradizionale imparzialità della testata. Cosa che però rischia di limitare pesantemente la costruzione di un «personal brand» da parte dei singoli giornalisti - viene fatto notare dall'intervistatrice, Kelly Clay. Che il Social Media Editor cerca di smentire citando alcuni esempi: «Non sono poi così limitati (...). Permettiamo e incoraggiamo osservazioni intelligenti o personali, come gli apprezzamenti su un film o una partita (...): ci piace quando i nostri giornalisti si pongono sui social come esseri umani, con esperienze e interessi comuni».
L'uso di Twitter è quindi cosa caldamente suggerita nelle redazioni, ed è effettivamente difficile immaginare, oggi, l'esercizio della professione senza uno sbocco anche solo privato su uno strumento del genere, una finestra necessaria. Ma se l'osservazione di determinate regole vigila sul comportamento individuale sui social network, è possibile ritenere l'uso di Twitter, in sostanza, una doverosa prosecuzione stilistica e persino editoriale della propria attività lavorativa? Un vezzo improduttivo eppure regolato? È una delle provocazioni evocate da Choire Sicha su The Awl: «Ricordate quando i giornali caricarono i loro impiegati col doppio del lavoro (dovreste, è stato solo un paio d'anni fa)? E loro, tutti - HA HA - furono costretti ad aprire un blog? (...) Ecco: più o meno come oggi, e qualcuno l'ha presa troppo a cuore». Sicha - che titola eloquentemente il post «Is Twitter Your Job? Is It Paying You? So What Are You Doing?» - racconta di un live tweeting ossessivo nel quale cronisti e redattori vari diedero vita a quello che definisce un loop di informazioni più o meno superflue, e durante il quale «sembrava che nessuno prendesse nota né trascrivesse nulla»: nessuno che stesse lavorando sui propri articoli, né generando alcun benefit economico per l'azienda o per loro stessi. «Credo che la buona notizia fosse che il loro furioso twittare avesse incrementato il punteggio su Klout (...), però questo non li aiuterà (ancora) col fisco e l'affitto».
La BBC ha notoriamente, e da un paio d'anni, incoraggiato i propri giornalisti ad usare Twitter, considerato strumento fondamentale per l'attività giornalistica moderna, segno di come la tecnologia cambi e di come l'azienda voglia accettare la sfida. Secondo determinate regole, pubblicate sul proprio sito: al giornalista, per esempio, è concesso di dichiarare pubblicamente la propria appartenenza al gruppo ma di non esprimersi mai a nome della company, né di inserire le lettere ‘BBC’ nel proprio nickname. Proibite ovviamente anche preferenze politiche, faziosità, o atteggiamenti eccessivamente informali. In sostanza però, come ammesso dal Social Media Editor di BBC News Chris Hamilton, «Le linee guida pubblicate non sono scritte nella pietra, cambieranno come cambia il paesaggio social e digital. Si tratta, per ora, di trovare il giusto equilibrio tra impegno, ricerca e diffusione delle notizie». Cautela e «Don't do anything stupid», com'è stato efficacemente riassunto. Stessa strada che accomuna molti, e più o meno dal 2009 (qui una guida alle "best practice" redatta dall'American Society of News Editors, con alcuni esempi): l'accuratezza imparziale richiesta dalle guideline del Wall Street Journal, con attenzione ai comportamenti privati di rilevanza pubblica che rischiano di compromettere la credibilità del gruppo, il richiamo al "buon senso" che la NBC, per esempio, fa ai propri collaboratori («You’re a journalist. Act as if you’re a journalist. This is a vocation, not just a job»), così come per Washington Post e Reuters, che pretendono gli stessi principi giornalistici, che animano la professione, sui social media.
Diverso, in un certo senso, è però il caso della NPR, la radio pubblica statunitense. In questo caso si parla di linee guida «etiche» nelle quali la rete, nota sempre Sonderman per Poynter, viene insolitamente considerata con un certo rispetto, quasi come espressione della comune vita pubblica, altro dallo storico pregiudizio della «terra dei selvaggi da colonizzare e civilizzare». Settantadue pagine, pochi e semplici i punti specifici: favorire un certo giudizio sulla velocità - «Se sbagliamo ne va della nostra reputazione» -, comportarsi in rete come su qualsiasi altro scenario pubblico, non limitarsi alla condivisione “sterile” ma contestualizzare, ove possibile, tweet e contributi, cercare conferme offline su ciò che è stato trovato in rete, "diventare amici" delle fonti senza creare l'effetto "comunella", soprattutto essere onesti e dichiarare apertamente la propria identità, il proprio rapporto con la testata, sempre.
E mentre in Italia l'approccio normato delle redazioni nei confronti di questi strumenti sembra subire ancora qualche leggero ritardo - ad oggi solo La Stampa pare abbia codificato, e solo privatamente, delle linee guida interne da seguire - i social network continuano ad essere considerati dai lettori il mezzo migliore col quale scoprire e intercettare notizie. A rivelarlo è un report del Reuters Institute for the Study of Journalism pubblicato questa settimana: l'indagine analizza il comportamento dei consumatori di notizie online per cinque paesi - Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e Danimarca - scoprendo che i social media iniziano persino a sfidare i motori di ricerca come strumento primario per il reperimento di news. Sono soprattutto i giovani (età 16-24, i cosiddetti "nativi digitali") a preferire questo metodo, ed è ancora, comunque, Facebook a dominare il "mercato", seguita dalle mail - ebbene sì - e da Twitter.