Questa settimana in RoundUp: il numero dei quotidiani online americani che adotta il modello paywall sale al 41%, ma è una «tattica a breve periodo»; i business model che interesseranno la nuova creatura editoriale di Greenwald e il fondatore di Ebay Omidyar; Facebook sta diventando la più importante fonte di lettori per i giornali online; la storia del blogger Brown Moses, che senza alcuna preparazione giornalistica - né lavoro sul campo - è diventato una delle fonti nel racconto delle vicende siriane - e non solo.
La riscossa dei paywall
Uno dei più grandi gruppi editoriali americani torna sulla strada del paywall, senza abbracciarne pienamente la filosofia. Questa settimana il CEO di Digital First Media John Paton ha infatti annunciato che circa 75 tra i titoli del suo gruppo adotteranno nei prossimi mesi il modello delle metered subscription (un paywall più ‘elastico’, che garantisce la lettura gratuita di alcuni contenuti) nel tentativo di farne una «tattica a breve termine», piuttosto che una strategia di lungo respiro. Paton non è mai stato un grande fan del paywall, ma nel tentativo di trovare un modo per rendere redditizio il lavoro online delle sue testate, constatata l’inefficacia di altri modelli finora sperimentati (dall’hard paywall agli accordi con Google), ha deciso di far calare ‘il muro’ degli abbonamenti su buona parte delle testate DFM come espediente per sopravvivere al contesto attuale: «Non cambiano nulla, (…) e lo dico da sempre: è una tattica che ci aiuterà nell’immediato». Lo scenario di crisi da contrastare è quello ben noto, nel quale «Print dollars are becoming digital dimes» chiarisce sul suo blog, ma se i costi sono quelli di sempre allora serve un nuovo flusso di entrate per sopravvivere il più possibile alla ‘tempesta perfetta’.
Le entrate derivanti dalla pubblicità online sono aumentate dell’89%, continua, ma «se vogliamo portare a termine questo viaggio da carta a digitale» ci serve molta più benzina nel serbatoio. Stando a un calcolo fatto da Ken Doctor, con la decisione di Digital First Media la percentuale dei quotidiani online americani che adotta il modello paywall sale così al 41%, un grosso cambio di tendenza rispetto ai passi indietro che testate di grandezza medio-grande stavano gradualmente approntando sul fronte degli abbonamenti online (curiosità: Los Angeles potrebbe essere la città con più testate paywalled). Proprio questa settimana Google ha annunciato l’introduzione di un nuovo prodotto che sostituirà il fallimentare progetto Currents: è una sorta di edicola virtuale (newsstand) su Android simile a Flipboard, nella quale si potranno leggere contenuti free e a pagamento. Nel ventaglio di scelte messe a disposizione dalla Newsstand App sarà possibile leggere contenuti subscription-only da quotidiani come New York Times e Wall Street Journal, e gli utenti saranno in grado di accedervi importando i loro account sottoscritti con queste testate.
Le strade che attendono il progetto di Greenwald
Uno degli articoli più discussi nel panorama mediatico questa settimana è stata l’analisi di Frederic Filloux dei business model adottabili dalla nuova creatura editoriale che coinvolgerà il fondatore di Ebay Pierre Omidyar (per la quale ha investito circa 250 milioni di dollari) e l’ex giornalista del Guardian Glenn Greenwald (ne abbiamo già parlato qui). La nuova testata, che in queste settimana sta arricchendo il proprio parco giornalisti arrivando fino al professore della NYU Jay Rosen (non senza attirare critiche), si trova davanti a uno scenario critico e piuttosto ostile alle nuove iniziative editoriali: un vantaggio sarà certamente partire da zero senza patire il peso dei costi ereditari, ma con l’handicap - tuttavia - di una naturale vulnerabilità finanziaria priva di riferimenti né esempi da seguire, data la natura del tutto peculiare del progetto. Uno dei primi dubbi da dirimere, secondo il media critic del Guardian, è decidere se puntare ad alti volumi di accessi da rivendere ai numerosi (potenziali) inserzionisti pubblicitari ai quali verranno offerti tanti piccoli spazi, o offrire maggiore qualità, costruire un brand forte e - dal punto di vista finanziario - fare fondo sulla società di appartenenza, votata al profitto su altri mercati, alla quale potrà garantire solo un contribuito marginale e la capacità di dilatare i tempi di rientro dei costi.
Una possibilità dal punto di vista delle entrate, secondo Filloux, potrebbe essere quella degli abbonamenti: il giornalismo investigativo, cuore del progetto, potrebbe giustificare una campagna di sottoscrizione che già altrove, come nel caso di Mediapart in Francia, ha dato buoni frutti. Con una platea di english-speaker così ampia e una copertura su scala globale - e non Washington-centrica - la creatura di Omidyar e Greenwald potrebbe verosimilmente puntare a una cifra fra i 500mila e gli 800mila abbonati in pochi anni, fino a 40/60 milioni di dollari di entrate annue. Quanto alla piattaforma, l’analista immagina un progetto mobile oriented, fortemente multimediale (con tanto di piattaforma di web tv e versione cartacea settimanale per i longread), tematicamente segmentato, in grado di poter arrivare in mercati linguisticamente attraenti (Cina?) pensando «a un approccio globale al giornalismo nell’interesse pubblico nelle grandi democrazie, ma anche a paesi privi di libertà di stampa».
I giornali online e la dipendenza da Facebook
L’ascesa di Facebook ha inevitabilmente condizionato il modo in cui si arriva alle news e come si condividono con gli altri, tanto di diventare tra le principali (se non la principale) fonti dalla quali si arriva alle notizie (qui alcuni numeri sul peso dei social nei giornali italiani). Una ricerca pubblicata in ottobre mostrava come la media delle visite verso siti di news proveniente da pagine Facebook fosse cresciuta del 170% in un anno, da settembre 2012 a settembre 2013, evidenziando come gran parte di questa ascesa fosse da addebitare all’aumento degli utenti mobile (+253,25% di visite provenienti da Facebook Mobile su base annua). Ci sono più smartphone e più utenti disposti a distribuire like e condividere, dimostrava la ricerca di Shareaholic: più della metà di questa crescita sarebbe dovuta esclusivamente al settore mobile, in un mercato generale - stando a un’altra ricerca del Pew Center delle scorse settimane - nel quale Facebook rappresenta (negli USA) una fetta del 64% degli adulti del Paese, di cui poco meno della metà generalmente abituati a cercare notizie su Facebook. Numeri che spingono a chiedersi se non sia proprio Mark Zuckerberg, in qualche modo, il personaggio al quale guardare per la sopravvivenza dell’editoria online.
Questa settimana Charlie Warzel su BuzzFeed cerca di rispondere a questa domanda partendo da dati più aggiornati. «Facebook ha fornito livelli di traffico senza precedenti negli ultimi mesi verso alcuni publisher, un aumento inaspettato e incredibile che ha colpito siti di diverso genere», spiega Warzel: prendendo in considerazione un paniere di 200 siti che vanno da HuffPost a Slate (testate da più di 300 milioni di utenti al mese) il traffico da Facebook verso queste sarebbe cresciuto del 69% da agosto a ottobre, un repentino cambio di velocità che nel solo mese di agosto ha superato per la prima volta ha superato i 100 milioni di contatti di traffico dal social network. In quello stesso mese - presume l’autore, cercando di spiegare il ‘fenomeno’ - Facebook ha infatti annunciato dei cambiamenti rilevanti nell’algoritmo del News Feed, che avrebbero influenzato la comparsa dei post nella bacheca degli utenti privilegiando quelli con più interazioni. Facebook ha infatti invitato pubblicamente gli editori ad adeguarsi per sfruttare questo nuovo tipo di indicizzazione, e più in generale a prestare maggiore attenzione a ciò che viene deciso a Palo Alto: più di Twitter, «ossessione» per molti giornalisti, Facebook appare effettivamente determinante per il buon funzionamento dei propri contenuti online, e la svolta ‘persuasiva’ della società nei confronti degli editori (con consigli di vario tipo e un aumento netto del 170% delle visite medie), arrivata proprio in concomitanza con l’IPO di Twitter, non sarebbe altro - secondo l’autore - che un modo per ricordare ai giornali online da dove passa il vero flusso di lettori e notizie.
Fare giornalismo in modo del tutto incidentale
Eliot Higgins è un 34enne disoccupato di Leicester con moglie e figlia di due anni che passa le sue giornate a monitorare le attività militari in Medio Oriente col nome di Brown Moses. Questa settimana Patrick Radden Keefe sul New Yorker dedica un lungo profilo al blogger inglese diventato una vera e propria risorsa per giornalisti per quanto riguarda le faccende siriane e la verifica delle armi utilizzate nei conflitti, una sorta di fonte a distanza che «probabilmente ha lanciato più notizie di quanto molti giornalisti abbiano fatto nella loro intera carriera» - stando alla definizione di Stuart Hughes, News Producer della BBC. Appassionato di armi e videogiochi di guerra (può giocare anche per più di 24 ore di seguito), Higgins monitora ininterrottamente da 18 mesi ingenti quantità di materiale multimediale (in special modo sulla Siria) fino a diventare uno dei punti di riferimento per quanto riguarda il tipo, le modalità d’utilizzo e la provenienza delle armi mostrate nei documenti che ritrova: incrocia foto, video e tweet, assembla playlist su YouTube e lavora con altri utenti utilizzando piattaforme come Storyful, geolocalizza scontri e bombardamenti, e pare sia stato determinante nel processo che ha portato all’attenzione del mondo il dubbio che le truppe di Assad avessero fatto uso di armi chimiche - conclusione, specifica Bianca Bosker sull’Huffington Post, che avrebbe poi condotto agli accordi sulle ispezioni e la distruzione degli arsenali chimici.
Higgins non è un giornalista, non ha alcun tipo di formazione per quanto riguarda il reperimento e il trattamento di materiale ‘classificato’, non è mai stato in Siria né conosce l’arabo: giura di aver cominciato un po’ per noia un po’ per ossessione, dopo aver capito - nel corso di un flame sul sito del Guardian - quanto fosse facile arrivare a certe fonti e lavorarci sopra utilizzando i social network. «Brown Moses fornisce un sacco di materiale sulla Siria» spiega CJ Chivers, reporter del New York Times: «che lo ammettano o meno, in molti si sono ritrovati a fare affidamento sul materiale di quel blog» analizzandone i video che riversa - un lavoro che lo porta a setacciare circa 300 filmati al giorno. Il tutto gratuitamente: Higgins ha infatti lanciato qualche mese fa una campagna di crowdfunding che gli ha fruttato circa 10.000 dollari in meno di un mese, tanto da portare Mathew Ingram a chiedersi su Gigaom se il suo possa essere considerato un modello di crowdsourced journalism, di citizen journalism in ‘remoto’, o di giornalismo in generale. Suo fratello parla di lui come di una persona che si appassiona tenacemente alle cose (per i videogiochi così come per le armi o i filmati di guerra), e in epoca di media alla portata di tutti e piattaforme per UGC, è più facile ricadere - incidentalmente o meno - nel territorio del giornalismo.