Presso la Sala Raffaello dell’Hotel Brufani si è ampiamente analizzato e discusso sulla possibilità della “morte di un intero genere di giornalisti e giornalismo”.
A introdurre l’evento Il corrispondente dall’estero nell’era dei social media è stato Charlie Beckett, direttore Polis, il quale ha subito esposto il problema emerso dai più recenti studi sul giornalismo e presentato i tre illustrissimi ospiti. Mimosa Martini, corrispondente dall’estero per il Tg5, Mort Rosemblum, ex direttore The International Herald Tribune e Richard Sambrook, vice presidente Edelman.
Charlie Beckett, quasi per provocare i suoi co - relatori, decide di introdurre l’argomento dal punto di vista di chi crede che l’estinzione di questa classe di giornalisti non avrà alcun effetto sul mondo dell’informazione, d’altronde, queste “celebrità sono costose da mantenere, spesso diventano essi stessi i protagonisti delle storie facendo sì che si perda la notizia principale, vanno alla ricerca di scoop e immagini che sciocchino il pubblico, fanno colonialismo mentale e, inoltre, potrebbero essere facilmente sostituiti dalle nuove tecnologie e dai giornalisti locali. Dunque, perché continuare a mandare inviati all’estero?” Questa la provocazione di Beckett che ha visto immediatamente la risposta di Mort, il quale conferma tutte le problematiche appena esposte ma afferma che, in primo luogo, il giornalismo ha bisogno di etica, di credibilità, di professionisti. E tutto ciò non si può ottenere affidandosi solo ed esclusivamente alle nuove tecnologie o ai giornalisti locali dei paesi nei quali vengono inviati i corrispondenti.
A dare una analisi concreta, fatta di esempi, di immagini, di realtà toccanti, è Mimosa Martini, da sempre inviata all’estero in zone pericolose e non, la quale prima di ogni altra cosa, parlando, trasmette la sua passione per il giornalismo e per il suo lavoro riuscendo a smontare parola dopo parola le frasi provocatorie di Beckett. La giornalista racconta episodi vissuti in prima persona in luoghi come l’Egitto, dove è stato possibile lavorare solo ed esclusivamente grazie alle nuove tecnologie, micro camere, cellulari dotati di fotocamera, un semplice computer che le ha permesso di costruire i pezzi che gli italiani hanno visto scorrere sugli schermi televisivi. E’ entrata nelle notizie, rischiando spesso di essere scoperta da chi non vorrebbe far trapelare informazioni politiche o di guerriglia e la cui reazione non sarebbe tra le più gentili nei confronti dei corrispondenti esteri. “Stiamo difendendo il nostro lavoro, ma anche l’informazione, e potremmo farlo abbattendo i costi” aggiunge la Martini, convinta sostenitrice della tesi che le nuove tecnologie non siano un ostacolo al mestiere, bensì un aiuto, un modo, appunto, per costare meno al mondo giornalistico. E’ inoltre convinta che l’inviato non potrebbe mai essere sostituito dalla collaborazione con giornali locali e con colleghi del luogo per due motivi: il primo riguarda il pericolo che in alcuni luoghi del mondo, dove le notizie sono bollenti, i giornalisti locali non possano raccontare la verità, perché questo potrebbe compromettere non solo il loro lavoro ma anche la loro stessa vita. Il secondo fa riferimento, invece, al punto di vista del narratore, “Il giornalista locale – dice – è all’interno del sistema e dei meccanismi della notizia, racconta le cose dal punto di vista di chi le conosce. L’inviato riesce a raccontare da un punto di vista fresco, nuovo, non intaccato dal sistema, dando una notizia per un pubblico globale.” Appare dunque evidente che il corrispondente dall’estero sia impossibile da sostituire. E’ quanto afferma anche Sambrook “nonostante i cambiamenti che questo mestiere ha subito negli ultimi 20 anni”. Trasformazione in gran parte dovute alle nuove tecnologie, ai nuovi modi di fare informazione, alla nascita dei social media. “Twitter, facebook sono diventate fonti di notizie non solo per il pubblico ma anche per i giornalisti” questo potrebbe essere un ostacolo ma è anche un aiuto per avere maggiori fonti, per conoscere il punto di vista di un “testimone oculare di prima mano”. “I social media consentono di avere una finestra sul mondo, è questa la grande rivoluzione” aggiunge la Martini.
La collaborazione con le piattaforme dei luoghi da dove provengono le notizie, lo studio e la verifica delle fonti che offre il web, i nuovi modi di comunicare, sono i fattori che, pur cambiando il giornalismo dei corrispondenti esteri, “creano un ponte culturale – afferma Mort – e c’è bisogno, oggi più che mai, di persone che riescano ad attraversare questo ponte e a far arrivare le notizie al grande pubblico, a chi non conosce la materia”. Si sofferma poi sul problema economico del mestiere, “Tutto ha un prezzo, ma il prezzo più grande sono i danni causati e subiti. I giornalisti devono essere liberi e il giornalismo deve puntare sulla qualità delle informazioni”.
Un’ultima domanda, in chiusura, viene posta da Beckett a Mimosa Martini: “Sei ottimista o pessimista nel tuo lavoro?”.
“Sono un’inguaribile ottimista – è la risposta della giornalista – perché sono appassionata. Amo il mio lavoro, ma sono anche pessimista perché è sempre più difficile farlo. Il mio più grande timore è che si arrivi a raccontare le cose in modo superficiale, offrendo al pubblico un’informazione appiattita. La mia speranza e il mio ottimismo derivano dalla gente, dal desiderio di informazione.”
E’ a questo che il giornalismo deve puntare “alla soddisfazione di un desiderio di qualità che superi la quantità uniforme”.
Silvia Vero