Questa settimana su RoundUp: il blogger saudita condannato a 10 anni e 1000 frustate; i progetti di Scott Carney per migliorare la vita e il lavoro dei freelance attraverso il crowdfunding; usare Facebook per informare e creare una comunità.
Il blogger saudita condannato a 10 anni e 1000 frustate
Saudi court upholds blogger @raif_badawi's 10 years and 1,000 lashes http://t.co/yHpdyx2scW pic.twitter.com/ccZzVxxIr2
— BBC Trending (@BBCtrending) 7 Giugno 2015
Raif Badawi è un blogger e attivista saudita di 31 anni, creatore del sito Free Saudi Liberals. Arrestato nel giugno 2012 con l’accusa di vilipendio alla religione via web, nel 2013 è stato condannato a 7 anni di carcere e 600 frustate.
La condanna di Badawi ha destato una massiccia mobilitazione della comunità internazionale che, domenica scorsa, non ha comunque impedito alla Corte Suprema di Gedda di inasprire la sentenza prodotta due anni prima: Badawi sarà costretto a 1000 frustate, 10 anni di detenzione nel carcere di Briman, e a pagare una multa di 1 milione di riyal - circa 267.000 dollari. Al blogger sono già state inflitte 50 frustate in pubblica piazza nel mese di gennaio, pena successivamente interrotta a causa delle severe condizioni fisiche riportate dopo la flagellazione.
Raif Badawi è stato condannato “solo per aver parlato su un blog di libertà d’espressione”, spiegava una nota di Amnesty International. Free Saudi Liberals è un blog sul quale gli autori invitavano a discutere su religione e società: in alcuni dei post incriminati - di cui si possono leggere alcuni estratti qui sul Guardian - Badawi dibatteva sulla necessità di una secolarizzazione nel paese, arrivando a criticare importanti cariche religiose locali.
La lotta contro la libera espressione in Arabia Saudita - paese retto da una brutale monarchia assoluta - si è inasprita soprattutto nel 2011, dopo la Primavera araba: la stretta è arrivata a causa di alcuni emendamenti aggiunti alla legge sulla stampa, che hanno introdotto reati contro la pubblicazione di materiale ritenuti avversi alla sharia, all’interesse e all’ordine pubblico, e alla sicurezza nazionale. Inoltre, secondo Human Rights Watch, la legge antiterrorismo introdotta nel 2014 sarebbe in grado di criminalizzare ogni tipo di espressione critica nei confronti del governo e della religione.
A questo punto, l’unico atto che potrebbe salvare il blogger è il perdono da parte di Re Salman Bin Abdulaziz. L’Editorial Board del New York Times questa settimana ha chiesto a Re Salman - incoronato da pochi mesi - un atto di clemenza. Secondo uno studio del Committee to Protect Journalism, l’Arabia Saudita sarebbe da considerare uno dei 10 paesi più censurati del mondo.
Il ragazzo che vuole cambiare la vita dei freelance col crowdfunding
I am proud to announce that this morning I'm going to do more than just write about the problems in the publishing...
Posted by Scott Carney on Friday, April 24, 2015
Il 24 aprile scorso è apparsa su Kickstarter una campagna per finanziare la nascita di WordRates e PitchLab. Il primo è un sito sul quale si potranno giudicare i trattamenti economici riservati dagli editori agli autori. PitchLab invece permetterà ai freelance di esprimere giudizi e critiche sui pitch altrui, e aiutarli nella fase di promozione.
Sono le idee che Scott Carney ha avuto per migliorare la vita dei freelance, sia dal punto di vista economico che da quello della produzione: mentre con WordRates l’idea è quella di creare una sorta di database dei migliori e peggiori publisher su piazza, per aiutare i freelance nella scelta delle collaborazioni e contemporaneamente farsi un’idea del mercato nel quale vanno a proporre il proprio prodotto, con PitchLab invece l’intenzione è creare competizione e migliorare la qualità media di proposte e contrattazioni: una volta che le idee per gli articoli sono state giudicate severamente dagli altri “colleghi”, infatti, sarà uno di questi a promuoverlo e piazzarlo sul mercato, cercando di ottenere la piccola commissione prevista per lo sforzo.
“Il fatto che qualcuno stia conducendo le negoziazioni per te” e possa ricavarne un piccolo profitto - spiega l’ideatore a Khari Johnson su Through The Cracks - aiuterà chi lo sta facendo a cercare “cercare di ottenere più soldi possibile” e a vendere a un prezzo persino migliore di quanto non farebbe lo stesso autore. È per questo che Carney ha cercato di riunire una comunità attorno a sé e alla campagna di raccolta fondi.
Dopo un mese, infatti, i due progetti insieme hanno raccolto su Kickstarter circa 9.300 dollari da 246 sostenitori, ben al di sopra degli 6500 richiesti. Il crowdfunding “non è un modello per il giornalismo”, spiega. La cosa appagante, e per di più utile, è il fatto che campagne come queste danno una relazione diretta coi lettori, e la possibilità di attrarre nuovo pubblico: “crowdfunding is not about money. It’s about audience, and knowing that the audience is invested in it, to some degree”. Wordrates e Pitchlab possono partire.
Il crowdfunding è stato uno degli argomenti forti dell’ultima edizione dell’International Journalism Festival: qui di seguito potete trovare la testimonianza a #ijf15 di Frederik Fischer di Krautreporter, progetto tedesco nato da una delle raccolte fondi per il giornalismo più riuscite d’Europa.
Fare giornalismo su Facebook per la propria community
La creazione del senso di comunità in rete, per il giornalismo e l’informazione, è ciò che ha permesso all’ex columnist del Plain Dealer di Cleveland e attuale collaboratrice di Politico Magazine Connie Shultz di diventare un punto di riferimento per centinaia di migliaia di utenti Facebook, e per numerosi giornalisti online americani che vorrebbero emularne l’esperienza.
Usando la sua pagina come un ibrido fra un giornale locale, un forum, un luogo per i commenti personali sulle news e uno spazio nel quale riversare pezzi di vita privata, Shultz ha raccolto attorno a sé 130mila follower, che aggiorna quotidianamente sulle questioni di attualità e politica locale, sulle nuove avventure del suo cane, ma anche aprendo a dibattiti aspri su politica e temi sociali, o ascoltando i consigli e le critiche dei lettori sulla gestione della pagina stessa.
Dear Facebook friends, subscribers and visitors: Journalist Anna Clark interviewed me this morning for a Columbia...
Posted by Connie Schultz on Friday, May 29, 2015
La paziente cura della comunità, spiega a Anna Clarck sulla Columbia Journalism Review, è stata un passo fondamentale verso il successo della pagina: l’occhio per la moderazione e la predisposizione al dialogo l’hanno aiutata ad accrescere la credibilità e l’attendibilità della sua figura pubblica, e della sua presenza online: “I dont’ want to be a celebrity”, spiega, ma una fonte affidabile, trasparente il più possibile - sin dal rapporto con Sherrod Brown, marito e noto senatore democratico dell’Ohio, che i lettori hanno imparato ad accettare come attore incapace di influenzare la linea editoriale e politica di sua moglie.
La questione del personal branding per i giornalisti è argomento dibattuto da tempo (ne avevamo parlato qui): secondo molti, utilizzare la propria firma può aiutare a coagulare piccole o grandi masse di lettori, che si affezionano alla personalizzazione del racconto delle cose, o che danno credito di una fonte fidata con volto, nome e cognome riconoscibili - se n’è parlato anche a #ijf14, qui. Tuttavia, conclude Anna Clarck, probabilmente “this isn’t branding. It’s journalism”.