Come i media coprono gli eventi traumatici

Si è svolto, domenica 25 aprile, presso la sala dell’Hotel Brufani, l’incontro dal titolo “Come i media coprono gli eventi traumatici”. Milorad Ivanovic, vice direttore Blic, Ruhi Hamid, BBC, Giuseppe Caporale, La Repubblica, i relatori presenti al dibattito, a seguire le conclusioni di Valeria Gentile, Alessandro Di Maio e Ali Al-Sumayin, autori della mostra “Storie d’Oro e di Fango. Aprile 2009 – Reportage dalle Tendopoli Aquilane”.  La giornalista Ruhi Hamid ha presentato alcuni dei suoi reportage realizzati in zone difficili del pianeta, primo tra tutti uno relativo al disastro dello Tsunami. “ Non so come ci si prepari per una zona come quella dello Tsunami – esordisce la giornalista della BBC – tutti volevano essere in quel posto durante i giorni della tragedia. Io volevo sapere cosa accadesse alla gente allora sono rimasta a casa  e ho deciso di aspettare, sono partita dopo quattro settimane. Certo, mi aspettavo devastazione, non mi aspettavo il trauma della gente”. Viene proiettato un video su Lumpur, nel mezzo della devastazione una moschea bianca è rimasta in piedi. “La moschea è in piedi perché ci è stata data una opportunità” – commentano gli ultimi abitanti rimasti e poi ancora – “Lo Tsunami è  stata una punizione di Allah” – gridano altri. È molto significativo un tratto del reportage realizzato con i bambini. “Un giorno ho fatto in modo che giocassero con me, Andry, un bambino apparentemente triste, era il mio giornalista ed intervistava gli altri, seduti in terra su dei cuscini. Sono diventati giornalisti di loro stessi. Hanno raccontato la loro esperienza, di come hanno perso la famiglia durante l’alluvione. È stato scioccante per me, gli indonesiani imparano a trattare il dolore in modo interno” conclude Ruhi Hamid, ricordando anche le giovani vedove che dopo quaranta giorni di lutto sono pronte e a sorridere ma palesano un dolore nascosto.  “Come ti avvicini alle vittime?” chiede Milorad Ivanovic, moderatore dell’incontro, “ Procedo lentamente” – afferma lei – “so che quei personaggi hanno una storia da raccontare e so che lo faranno solo quando si fideranno. A volte si deve condividere il lutto dei protagonisti senza abusare delle loro emozioni”. Dallo Tsunami all’uragano Katrina, dallo shock delle persone ad uno shock culturale. La giornalista della BBC ha, inoltre, presentato il reportage realizzato nella giungla di Laos, dove alcuni abitanti erano stati abbandonati a loro stessi da decenni. Non appena hanno visto la piccola troupe hanno iniziato a piangere. “Ho continuato a filmare, poi ho cominciato a piangere, sono rimasta coinvolta, in qualità di giornalista non puoi rimanere indifferente. Pensavano fossimo americani, volevano che raccontassimo la loro storia a tutto il mondo sperando che qualcuno andasse a salvarli” conclude Ruhi Hamid. Giuseppe Caporale, giornalista di La Repubblica, ha presentato, invece, un reportage su una storia tutta italiana: il terremoto a L’Aquila dell’aprile 2009. Caporale è stato il primo giornalista italiano ad arrivare sul posto “Ho messo in discussione il mio lavoro, non percepivo l’utilità della mia presenza in quel contesto” – ha esordito, poi ha continuato –  “se un senso ha questa professione è quello di cercare di capire perché questo terremoto ha causato tante vittime e tanto dolore dopo le quattrocento scosse precedenti”- conclude. È stato proiettato il suo documentario dal titolo “L’Aquila non è Kabul”, con prefazione di Carlo Bonini. Il documentario ha presentato il disagio, il dolore di quei momenti ma ha cercato, soprattutto, di capire quali fossero la cause, di chi fosse la colpa. Si sono scoperte cose drammatiche: l’ospedale non aveva agibilità, la casa dello studente era priva di pilastro, si è costruito dove non si poteva costruire. Un documentario che indaga sulla colpe, in prevalenza della Regione Abruzzo. Il giornalista di La Repubblica afferma “A L’Aquila ci sono stati due terremoti: quello della terra e quello della corruzione, due storie intrecciate tra loro, due volti della stessa medaglia”. Milorad Ivanovic chiede “I media italiani come hanno trattato l’evento?”, “I media italiani hanno fatto sciacallaggio – riprende Giuseppe Caporale – hanno cercato di portare a casa il dolore della gente. Occorre avere rispetto delle persone: il modo migliore per ricordarle è rendergli giustizia!” – conclude. È stata poi la volta degli autori della mostra “Storie d’Oro e di Fango. Aprile 2009 – Reportage dalle Tendopoli Aquilane” anche volontari al Festival Internazionale di Giornalismo. Valeria Gentile, ha realizzato un reportage letterario. Si è recata a L’Aquila un mese dopo, ha trascorso una settimana in tendopoli “Volevo raccontare come gli aquilani hanno affrontato la situazione, in un primo momento hanno cercato di allontanarsi, poi dopo un mese per loro c’è stato un rendersi conto della situazione. Il mio approccio è stato molto delicato, alcuni giornalisti hanno esagerato. In quel momento c’era una totale assenza di aiuti psicologici”. Diverso è stato l’approccio di Alessandro Di Maio. Lui sul posto si è recato subito “Non sapevo cosa avrei trovato. Ho portato un po’ di cose da mangiare, vedere quelle persone attendere un responso mi faceva pensare di dover raccontare. Mentre ero in giro per la città, ho visto un orsacchiotto in terra, l’ho visto, mi ha colpito, l’ho fotografato. Qualche sera più tardi durante la puntata di Porta a Porta, ho visto il giornalista Vespa prendere da terra quell’orsacchiotto: mi sono sentito stuprato!” – poi continua “ I media italiani hanno trattato in modo veramente scellerato il terremoto a L’Aquila e l’alluvione di Messina”. Un’altra esperienza è stata quella di Ali Al-Sumayin “Mi sono trovato a L’Aquila per caso, ero diretto in Toscana. Non parlo italiano e questo in alcune situazioni mi ha favorito perché quando i poliziotti mi dicevano di fermarmi io non capendo, me li lasciavo alle spalle e continuavo ad andare in giro. Sono arrivato dove i media si fermavano. Ho cercato di fissare immagini per fissare la mia memoria”. Documentari che commuovono, storie che suscitano rabbia, perché il senso della professione non può fermarsi allo scoop, alla storia ma deve andare oltre, oltre il velo di Maya.

Anna Grazia Concilio

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