di Katharine Viner, deputy editor of the Guardian and editor-in-chief of Guardian Australia
Articolo pubblicato originariamente su theguardian.com e riprodotto con il consenso della testata. (Traduzione di Roberta Aiello)
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Vorrei partire da una storia vera.
Qualche tempo fa stavo svolgendo un colloquio di lavoro per un impiego al Guardian. Ho chiesto all'intervistato, che aveva lavorato solo per la carta stampata, come pensava di affrontare il lavoro nell'informazione digitale. La risposta è stata: "Beh, ho un computer. Sono anni che uso i computer".
La sua risposta è stata divertente, ma anche illuminante: riteneva, evidentemente, che il digitale riguardasse esclusivamente lo sviluppo tecnologico; che si trattasse di un nuovo tipo di video scrittura. In realtà, [tweetable] il digitale rappresenta un enorme cambiamento concettuale e sociologico [/tweetable], una bomba a grappolo che esplode indipendentemente da chi siamo e da come il nostro mondo è organizzato, da come vediamo noi stessi e da come viviamo. È un totale cambiamento e noi ci troviamo al centro, talmente vicino che a volte è difficile rendersene conto. Ma è molto profondo e sta avvenendo a una velocità quasi inverosimile.
Mi piacerebbe parlare di quello che questo cambiamento sta determinando nel giornalismo, e delle opportunità che si presentano se si è realmente aperti al web. Mi piacerebbe anche vedere quanto la resistenza dei giornalisti al cambiamento stia danneggiando i loro stessi interessi, tanto quanto quelli del buon giornalismo, e come ora ci sia più bisogno che mai del giornalista che "racconti la verità, che le dia un senso e la spieghi".
Informazione: da fissa a flusso libero
Il web ha cambiato, in maniera molto chiara, il modo in cui organizziamo le informazioni: dal formato fisso e solido di libri e giornali si è passati a qualcosa di liquido e con un flusso libero, dalle possibilità illimitate.
Un giornale è definito. È concluso, sicuro di ciò che è, è certo. Per contro, l'informazione digitale è costantemente aggiornata, migliorata, modificata, spostata, sviluppata, una conversazione e una collaborazione continue. È viva, in evoluzione, senza limiti, inarrestabile.
Molti ritengono che questo cambiamento da fisso a liquido non sia esattamente una novità, piuttosto un ritorno alle culture orali di epoche precedenti. Secondo la teoria dell'accademico danese Thomas Pettitt, l'intero periodo successivo all'invenzione della stampa di Gutenberg – contraddistinto, tra il XV e il XX secolo, dai caratteri mobili, i testi, i 500 anni di informazione dominata dalla stampa – ha rappresentato soltanto una pausa, un'interruzione del flusso consueto della comunicazione. Pettitt definisce questo lasso di tempo "la parentesi di Gutenberg". Il web, dice, ci sta spingendo in uno stato pre-Gutenberg, fluente ed effimero, caratterizzato dalle tradizioni orali.
Per 500 anni, la conoscenza è stata contenuta in un formato fisso che si credeva rappresentasse una versione affidabile della verità; ora, trasferendoci nell'era post-stampa, stiamo tornando a un'età in cui si è in grado di ascoltare le notizie, corrette o sbagliate, dalle persone che si incontrano. Pettitt sostiene che il modo in cui pensiamo oggi rievoca quello di un contadino medievale, che si basava su chiacchiere, dicerie e conversazioni. "Il nuovo mondo è in qualche modo il vecchio mondo, quello precedente alla stampa".
Dick Costolo, amministratore delegato di Twitter, ha un'opinione simile: "Nell'antica Grecia, le notizie venivano diffuse, dopo pranzo, nell'agorà. Era uno scambio di informazioni multidirezionale e senza filtri".
Questo ragionamento mi riporta al 2000 e mi ricorda The Cluetrain Manifesto, uno dei testi di economia più influenti dell'era di Internet: "E se la vera attrazione di Internet non fossero inutili gadget all'avanguardia, l'interfaccia sgargiante, o una qualsiasi delle tecnologie avanzate dietro cavi e fili? E se, invece, l'attrazione sia per un atavico ritorno al passato, al fascino dell'uomo preistorico che racconta storie?".
Medievale, greco o preistorico: fate la vostra scelta.
Che cosa significa per il giornalismo un mondo a flusso libero
Che cosa significa oggi per il giornalismo un mondo a flusso libero? Che cosa significa quando ci allontaniamo dalla diffusione dell'informazione a senso unico, ottenuta con processi editoriali affinati nel corso dei secoli?
Vorrei parlare di alcune delle nuove possibilità per un giornalismo autenticamente aperto al web, e di alcuni pericoli e trappole.
Digitale non significa semplicemente pubblicare una storia sul web. È una ridefinizione fondamentale del rapporto dei giornalisti con il pubblico, della nostra opinione sui nostri lettori, della nostra percezione del nostro ruolo nella società, del nostro status.
Non siamo più giornalisti onniscienti, che distribuiscono parole dall'alto per lasciarle raccogliere ai lettori, passivamente, salvo forse qualche lettera occasionale al direttore. Da un giorno all'altro il digitale ha distrutto quelle gerarchie, creando un mondo più livellato, in cui le risposte possono essere istantanee e alcuni lettori sanno quasi certamente di più di un giornalista su un particolare argomento e potrebbero trovarsi in una posizione migliore per scoprire una storia. Per questi motivi, Jay Rosen dà ai lettori la definizione di "persone precedentemente conosciute come pubblico", e Dan Gillmor di "ex pubblico". Nell'era del giornale, esistevano alcuni giornalisti e molti lettori. Adesso può essere difficile determinare lo scarto. Le persone precedentemente conosciute come "pubblico" non si limitano a stare a guardare, e se non le ascolti, lavori con loro, lavori per loro, dai loro quello che vogliono e di cui hanno bisogno, hanno un sacco di altri posti dove andare.
Un web aperto permette di interagire con il pubblico come mai in precedenza, e di collaborare per scoprire, diffondere e discutere le storie in una serie di modalità nuove.
Spesso i lettori sanno più di voi
Nell'aprile del 2010, la fuoriuscita di petrolio provocata dalla Deepwater Horizon nel Golfo del Messico era completamente fuori controllo. Nessuno sapeva come fermare lo sversamento. La British Petroleum pensò di chiedere aiuto per trovare soluzioni, apparentemente perché non sapeva cosa fare. Il team del Guardian che si occupa di ambiente pubblicò una richiesta d'aiuto chiedendo di inviare proposte su come arginare la perdita. Così creammo un Googledoc per permettere ai lettori di pubblicare suggerimenti che, quasi subito, arrivarono da subacquei professionisti, ingegneri navali, fisici, biochimici, ingegneri meccanici, lavoratori petrolchimici e minerari, esperti di condutture. Selezionammo i migliori e li sottoponemmo a un controllo minuzioso. Costruimmo, così, un pezzo incredibilmente ricco e dettagliato, reso possibile grazie a quelle persone precedentemente conosciute come pubblico. Alcuni dei vostri lettori sanno davvero più di voi.
Sei più credibile se sei trasparente
In un mondo in cui siamo tutti travolti dall'informazione, i lettori vogliono sapere come si arriva a una storia e ricevere spiegazioni sugli eventuali errori commessi. Questo è il motivo per cui la figura del redattore dei lettori, che è indipendente dagli altri redattori, è essenziale, e 'mostrare i meccanismi' si riveli uno strumento potente.
A giugno di quest'anno, una settimana dopo il lancio di Guardian Australia, ci siamo occupati di una storia basata sulle dichiarazioni che l'allora ministro degli Esteri del governo ombra, Julie Bishop, aveva rilasciato a Lenore Taylor, nostro ottimo redattore politico. Bishop aveva sostenuto, in un'intervista, che l'Indonesia avrebbe cooperato nella politica di respingimento delle imbarcazioni dei richiedenti asilo. Si trattava di una storia grossa: un ministro degli esteri putativo che sembrava sostenere ufficialmente che i funzionari indonesiani le avessero dato assicurazioni in via privata, contraddicendo la posizione pubblica del proprio paese. A prescindere dall'attendibilità della notizia, sembrava che una persona che si riteneva potesse essere nominata ministro degli Esteri australiano avesse fatto una gaffe diplomatica. La vicenda anticipava una questione che ha dimostrato poi di rappresentare una grande sfida per il nuovo governo.
Purtroppo avevamo commesso un errore nel lanciare l'articolo con un titolo che insinuava che Bishop avesse dichiarato fosse in atto un accordo concreto. In effetti non era proprio quello che aveva affermato, anche perché tecnicamente solo i governi, non le opposizioni, possono definire accordi del genere. Bishop ha protestato, noi abbiamo cambiato il titolo e inserito un paragrafo che chiariva il malinteso.
Avevo creduto che la nostra rapida correzione avesse messo fine alla questione. Un'ora più tardi, Bishop ha emesso un comunicato stampa dichiarando di essere stata vittima di un "attacco del Guardian", che avevamo gonfiato la storia ed usato dichiarazioni in modo discriminatorio, anche nella versione corretta.
Semplicemente non era vero, così abbiamo deciso di condividere la nostra versione dei fatti con i lettori. Abbiamo pubblicato un blog in cui abbiamo spiegato le decisioni che avevamo preso, il motivo per cui avevamo cambiato il titolo e la trascrizione dell'intervista di Lenore a Bishop. Abbiamo quindi chiesto ai nostri lettori cosa ne pensassero. Molti di loro ci hanno detto di essere rimasti felici e affascinati dall'apertura di questo approccio, di sentire che avrebbero potuto fidarsi di più di noi, sapendo che saremmo stati trasparenti.
Il web aperto porta agli scoop
Essere aperti può portare, inoltre, a grandi scoop. Il mio esempio preferito risale alle proteste di Londra del 2009, in occasione dell'incontro del G20, quando il nostro cronista Paul Lewis stava indagando su quanto fosse accaduto a Ian Tomlinson, un venditore di giornali, collassato e poi morto, mentre camminava alla manifestazione. Per il medico, Tomlinson era morto di infarto. Così siamo andati alla ricerca di testimoni oculari.
Abbiamo chiesto aiuto su Twitter e sul sito del Guardian, e in poche ore Paul è stato contattato da un lettore americano. L'uomo, un manager di fondi di investimento, si era recato a Londra per motivi di lavoro e mentre partecipava a una riunione, si era allontanato per dare un'occhiata alle proteste, filmandole con il suo smartphone. Dopo aver letto la richiesta di aiuto, una volta rientrato a casa, a New York, ha riguardato la ripresa che aveva effettuato scoprendo immagini molto nitide che mostravano Ian Tomlinson spinto a terra da un poliziotto. Come potete immaginare, la ricerca si è rivelata un grande scoop. Nonostante l'agente di polizia sia stato assolto dall'accusa di omicidio colposo nel 2012, è stato successivamente licenziato per condotta grave e il medico è stato radiato. Nell'agosto scorso la polizia si è accordata con la famiglia Tomlinson che aveva intentato un'azione civile, formulando scuse ufficiali e accettando di pagare un risarcimento.
Niente di tutto questo sarebbe successo se il Guardian non fosse stato aperto al web.
Mercificazione
Quanto è accaduto è un buon esempio di ciò che i giornalisti hanno bisogno di fare più di ogni altra cosa: pubblicare storie. Andarne alla scoperta.
La risposta di molti editori al web è stata la mercificazione delle notizie e la produzione del cosiddetto "churnalism" – riciclando materiale, comunicati stampa e via dicendo. Il mio collega Nick Davies, nel suo libro Flat Earth News, pubblicato nel 2009, ha mostrato come l'80% delle storie raccontate dall'informazione di qualità della Gran Bretagna non sia originale e che soltanto il 12% sia stato prodotto da giornalisti. Ciò è in parte dovuto alle pressioni economiche, ma non esclusivamente: il settore è ossessionato dall'inseguimento delle stesse cose. Prendiamo ad esempio la famosa fotografia del principe George all'uscita dell'ospedale, con centinaia di fotografi e giornalisti concentrati su di lui. Cosa sarebbe accaduto se tutti i presenti, tranne tre, diciamo, fossero stati in giro a fare qualcos'altro? Quali altre storie interessanti abbiamo perso quel giorno? Se non stiamo attenti, fotografie come quella diventeranno il nostro epitaffio.
La grande opportunità va certamente nella direzione opposta: non inseguire il pacchetto confezionato, ma fare qualcosa di diverso. Come sostengono CW Andersen, Emily Bell e Clay Shirky nel loro meraviglioso saggio sul giornalismo post-industriale, "la vera informazione è ciò che distingue il giornalismo da una qualsiasi altra attività commerciale". Il motivo vero per cui siamo qui sono le cose che contano, con la famosa affermazione di Lord Northcliffe che ci ronza nelle orecchie: "La notizia è quella cosa che qualcuno da qualche parte non vuole sia pubblicata. Tutto il resto è pubblicità".
Con Guardian Australia, nato soltanto quattro mesi fa, abbiamo cercato di proporre al pubblico australiano qualcosa di fresco e nuovo. Se mi è concesso un breve momento di entusiasmo non tipicamente britannico, abbiamo avuto un aumento annuo del 75% di visite uniche; in alcuni giorni il nostro traffico aumenta del 100% rispetto a quello di un anno fa, quando le cifre erano già alte. Le entrate di questo mese hanno più che triplicato l'obiettivo prefisso. Lo so, è ancora presto, ma per il momento sta andando bene.
C'era e c'è un vuoto nel mercato australiano ed essere esclusivamente digitali significa avere la capacità di includere tutto quello che ha da offrire il digitale. Non avendo un giornale a cui pensare, si parte da un avvenimento o da un'idea e poi ci si chiede: qual è il modo migliore per raccontare questa storia? Un articolo? O un live blog, un elenco, una serie di tweet, un video, qualche audio, una galleria di immagini, un blog con dati, una visualizzazione, l'interattività, un gruppo di blog brevi, un pezzo con vari collegamenti, una discussione aperta in cui pubblichiamo una riga, per far partecipare il lettore? O qualcosa che inizia direttamente con il lettore? O con i dati? O qualcosa destinato specificamente agli utenti di telefonia mobile?
Questi confronti ci hanno portato a creare contenuti come l'incredibile esperienza immersiva e interattiva di Firestorm, che ha raccontato la storia dell'incendio a Dunalley, collocandola nel contesto del cambiamento climatico, utilizzando testo fotografia, video, audio e grafica; le rivelazioni di Oliver Laughland su Sayed Abdellatif, un richiedente asilo etichettato dal parlamento come un assassino jihadista che, attraverso un'indagine svolta in tre paesi, si è rivelato non essere nulla del genere; le profonde analisi con le quali Lenore Taylor e Katharine Murphy contribuiscono alla discussione politica di Canberra; le opinioni riflessive e coraggiose di David Marr che hanno costretto alcuni ministri a fornire spiegazioni, soprattutto grazie al suo articolo acuto "Ashbygate: the great disappearing scandal about to roar back to life"; l'intervista a Everlyn Sampi, la piccola star de La generazione rubata, che non aveva mai parlato fino a quel momento della sua vita difficile nei dieci anni successivi alla realizzazione del film, una storia angosciante sulle esperienze degli aborigeni dell'Australia; la scelta di cercare voci nuove e diverse, provenienti da contesti differenti, per Comment is Free, allontanandosi dalla figura standard dominante del commentatore di mezza età e di razza bianca; l'approfondimento serio sull'ambiente e le politiche sul clima; l'approccio rigoroso ai dati, capeggiato da Nick Evershed; l'impegno di pubblicare pezzi di giornalisti aborigeni e una partnership con IndigenousX su Twitter; il rapporto stretto con la nostra comunità sul nostro sito e sui social network, pubblicando sia opinioni che storie.
E sul nostro approccio: è un giornalismo con una voce progressista, che sembra essere particolarmente importante in un mercato dei media dominato da un unico proprietario che è in maniera assordante di destra.
Ciò non significa che siamo tutti protesi unicamente verso notizie serie. Ho sempre creduto che nessun argomento sia inaccessibile, fino a quando si riesce a trovare un modo per renderlo rilevante, ponderato e interessante. Se si ha intenzione di dire qualcosa sul twerking, basta inserirlo nel suo contesto politico, analizzare il suo significato nelle relazioni di genere, decodificarlo con stile. Allo stesso modo, il nostro approfondimento scherzoso dedicato allo sport si è rivelato molto popolare, così come l'approccio ai festival d'arte con una copertura totale. Questo genere di articoli avvicinano i lettori, li legano a te.
Ma finora sono le questioni serie che i lettori australiani sembrano volere più. Allontanarsi da notizie mercificate per servire l'interesse pubblico. Facendo qualcosa di diverso.
Far parte dell'ecosistema del web
Essere aperti, quindi, crea molti vantaggi per i giornalisti. Ma per farlo è necessario far parte dell'ecosistema del web, non semplicemente buttarcisi dentro; c'è bisogno di seguirne architettura, psicologia, costumi, piuttosto che imporre la struttura di un giornale.
Quando si pongono i lettori al centro di ciò che si sta facendo, si impara da loro come il web sta funzionando in quel momento. In questa epoca di transizione stiamo creando un nuovo ecosistema tutti insieme - e gli utenti sono spesso un passo avanti a noi, ci lavorano mentre vanno avanti.
Mi piacerebbe discutere di quattro punti con cui molti stanno lottando in questo nuovo ecosistema: il paywall, i collegamenti alle fonti, il confronto con i lettori, la gestione dei dati.
Il problema del paywall
La questione del paywall va dritta al cuore della difficoltà principale che stanno affrontando i media nell'era digitale: chi pagherà tutto questo.
Il giornalismo, in particolar modo quello serio e scrupoloso, è costoso.
E con il crollo del vecchio modello di business dei giornali, i soldi sono necessari. Il paywall rappresenta la tipica risposta da "mentalità da giornale" a questa esigenza – i lettori che hanno pagato prima, adesso pagano di nuovo. Non è ancora chiaro se il paywall raccolga tanti soldi da poter essere considerato utile e potrebbe darsi sia più funzionale per contenuti di approfondimento. Dal punto di vista economico, è troppo presto per escluderlo in un momento in cui stiamo cercando tutti di sopravvivere.
Giornalisticamente, però, il paywall è totalmente antitetico al web aperto. Un sito web con il paywall è solo un giornale stampato in un altro formato, e rende il rapporto con le persone, precedentemente note come pubblico, molto più difficile. Non è possibile sfruttare i vantaggi del web aperto se ci si nasconde.
L'argomentazione a sostegno è che il buon giornalismo debba essere retribuito. Beh, i giornalisti bravi devono essere pagati certamente. Ma si tratta di due cose diverse. Come sottolinea la scrittrice Bronwen Clune su New Matilda "La teoria che c'è dietro un paywall ... è che le persone pagheranno per leggere articoli d'inchiesta validi, scritti nell'interesse della popolazione. Ma se l'informazione risiede nell'interesse della popolazione, come si fa a porla dietro un paywall per svolgere il proprio ruolo?". E ancora, perché, se l'idea è che il giornalismo importante debba essere pagato, spesso i media abbandonano il paywall quando pubblicano una storia particolarmente importante?
Clune aggiunge: "Abbiamo bisogno di riformulare il dibattito sul paywall come un dilemma dei giornalisti. È un'illusione che il futuro del giornalismo sia sicuro in questo modo". Anzi, direi che stiamo confondendo le due cose. I giornalisti vogliono, sì, essere pagati. E vogliamo trovare modelli di business che rendano questo possibile - attraverso pubblicità, collaborazioni, donazioni, sovvenzioni. Ma come potrebbe il futuro del giornalismo essere al sicuro con il paywall, quando sta già andando oltre?
Collegamenti alle fonti
A settembre di quest'anno, Guardian Australia ha ottenuto un'esclusiva, convincendo Julia Gillard, l'ex primo ministro che ha lasciato l'incarico a giugno e che da allora non aveva rilasciato dichiarazioni, a rompere il silenzio, dedicandole un ampio articolo. Un pezzo molto eloquente, riflessivo, personale, una grande esclusiva che, naturalmente, è stata ripresa da tutti gli organi di informazione in Australia e da molti altri in tutto il mondo.
Eppure solo pochissimi siti australiani hanno pubblicato il link dell'articolo originale del Guardian.
Se si considera l'idea di linkare fonti esterne con la mentalità di un vecchio media, di un giornale, certamente non si farebbe mai. Si tratterebbe comunque di favorire un concorrente: perché mai dargli traffico?
Soltanto quando si cambia mentalità, adottando la logica dei nuovi media, ci si accorge che il collegamento alla fonte è essenziale. Solo quando si utilizza il web in prima persona ci si rende conto di quanto sia fastidioso se un sito non rimanda a qualcosa di cui si sta parlando. Non linkare significa dare priorità a ciò che si vuole i lettori leggano, invece di darla a tutto quello che il digitale mostra che realmente vogliono e di cui hanno bisogno, che sono diversità e connettività.
I collegamenti rendono più ricca l'esperienza del lettore e sono parte del successo del live blog politico di Katharine Murphy su Guardian Australia: non solo si potrà leggere un commento arguto ed informato sugli eventi del giorno, ma si potranno trovare altri argomenti interessanti – per i quali ci saranno dei collegamenti – ed avere una vera conversazione.
Il confronto con i lettori
Da diversi anni, il Guardian prevede la possibilità di commentare molti articoli, in particolare gli editoriali, e ciò richiede impegno e risposte. Un articolo non termina con l'ultimo punto del giornalista; in molti modi, un pezzo è ravvivato dal primo commento. Un editoriale senza commenti è ormai inimmaginabile sia per i lettori che per i giornalisti del Guardian.
Ma non è stato un percorso facile. Se si lascia la possibilità di commentare, capita che i lettori scrivano frasi minacciose e maleducate; c'è chi può trovarsi a vivere momenti difficili, per esempio donne e giornalisti non di razza bianca, nonostante la presenza di un'abile squadra di moderatori che offre loro più protezione di quanta ne abbiano sui social network. Alcuni giornalisti detestano questa situazione ed è difficile dar loro torto.
Ma quando funziona, si tratta di un incontro su più livelli che aiuta lettori e giornalisti a perfezionare i propri punti di vista, ad affinare le prospettive, ad acquisire nuove informazioni utili.
Quando lo scorso maggio abbiamo lanciato Comment is free in Australia, eravamo forti dei successi ottenuti e degli errori commessi nella versione britannica nel corso di molti anni. Quindi, fin dall'inizio, abbiamo trattato i nostri utenti con rispetto: lanciando un articolo in un momento particolare della loro vita e non quando fosse utile alle scadenze del giornale; chiedendo ai giornalisti di dedicarsi a chi commenta, insieme a direttori e colleghi; moderando leggermente; sollecitando esplicitamente il punto di vista dei lettori; dando spazio a commentatori interessanti; coinvolgendo commentatori interessanti; usando Twitter come un luogo dove trovare giornalisti; impegnandosi con i commenti anche su altre piattaforme, in particolare su Facebook, e trattando, sia gli apprezzamenti che le proteste, con la dovuta considerazione.
Segui l' istinto... ma usa anche i dati
Il Guardian è dotato di uno strumento interno di misurazione del traffico da cui sono ossessionata. È la prima cosa che leggo al mattino, prima ancora di Twitter. Ti dice quello che si sta leggendo in numeri, la provenienza dei lettori – dalla pagina principale, o attraverso una ricerca o i social network, e dove andranno dopo – saremo riusciti ad interessarli a un altro articolo?
I dati sul traffico sono una materia controversa. Abbiamo tutti sentito storie orrende di aziende che producono contenuti dove la gente è pagata con un click per scrivere della lingua di Miley Cyrus o del "traffico della puttana"; abbiamo tutti visto i media allontanarsi dalle storie realmente importanti per concentrarsi su quelle dove si dirige il traffico di massa. Giornalisti antiquati che credono di conoscere il traffico ritenendolo tanto inferiore quanto parte di una eccessiva semplificazione della grande industria di una volta.
Redattori antiquati che considerano sia stato il loro istinto a portarli in cima, ritenendo che questo sia più che sufficiente, arrivederci e grazie.
La mia esperienza, però, è stata diversa.
Osservare il traffico non significa occuparsi di esche digitali – significa scoprire come si comportano i lettori e a cosa sono interessati, e se non lo sono, capirne il motivo. Uso i nostri strumenti di misurazione per spingere un traffico maggiore verso cose che sappiamo essere valide. Se una storia è importante, e non è letta da molti lettori, allora voglio ottenga di più. Così si potrebbe promuovere pubblicandola in una posizione di maggior rilievo, oppure cambiarne il titolo con qualcosa che possa funzionare meglio in base ai misteriosi algoritmi di Google. Si potrebbe inviare su Twitter ad un personaggio importante, o ad un'emittente, o pubblicarla sulla nostra pagina Facebook. Questo siamo noi: cerchiamo di ottenere più lettori per qualcosa che lo meriti. Nel mondo della carta stampata, non si sapeva mai cosa si stesse davvero leggendo, nonostante gli innumerevoli sondaggi proposti ai lettori. E non c'era possibilità di cercare di far leggere un pezzo di più, perché una volta che il giornale era stampato, il discorso era chiuso. Lo hai salutato all'ultima edizione.
Ciò non vuol dire che l'istinto non abbia un suo ruolo. Al contrario - i migliori giornalisti hanno sempre naso per una storia e una sensibilità per lo spirito del tempo, che in alcune persone è radicato e in altri viene imparato attraverso l'esperienza. Gli strumenti giusti, però, possono aiutare a perfezionare l'istinto.
Dietro le barricate
In questo nuovo mondo aperto, dove tutto ciò che conoscevamo è in disfacimento, molti giornalisti si stanno barricando, costruendo muri più alti che mai, letteralmente e metaforicamente.
S'infuriano che anonimi signor nessuno possano esprimere ciò che pensano in risposta ai loro articoli. Più di sempre sembra vi siano cerimonie di premiazione per il giornalismo e convegni interminabili sul futuro dei media, dove c'è sempre chi dichiara, da libero pensatore radicale modaiolo, che la stampa abbia un futuro interminabile. Ancora prima che scoprissero cosa fosse Twitter, i giornalisti avevano già chiesto il segno di spunta blu che ne autentica i profili, confermando di essere diversi da tutti gli altri, di essere persone di spessore. Sono ossessionati dalla sopravvivenza, sia personale che professionale, contro la quale difendono le proprie tradizioni, i propri titoli, il proprio accesso, il proprio status. Come dice Clay Shirky: "È vero che se ci si trova ad un livello dove c'è disfacimento, si può sempre andare in spiaggia quando c'è la bassa marea e distinguersi tenendo le braccia alzate, ordinando alla marea di non avanzare, ma alla marea non interesserà".
Oltre le barricate...
Nel frattempo, le storie davvero importanti sono spesso raccontate da persone che non sono necessariamente giornalisti tradizionali.
La più importante storia dell'anno, la rivelazione che la NSA, l'Agenzia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, stia sorvegliando a tappeto le nostre e-mail e telefonate, è trapelata grazie ad Edward Snowden, ex collaboratore dell'NSA, e a Glenn Greenwald, un giornalista di Guardian USA. Glenn è un opinionista dissacrante che ha scritto molto sulla violazione della privacy dei cittadini da parte dello stato, in un modo diverso da chiunque altro. Per questo motivo, Snowden gli ha fornito le informazioni di cui era a conoscenza. Ha dato l'esclusiva a un giornalista di cui si fidava, a qualcuno che sapeva avrebbe condiviso le sue preoccupazioni sugli effetti della sorveglianza di massa sulla vita delle persone.
Si potrebbe pensare che le rivelazioni sconvolgenti avrebbero potuto dare fama al giornalista che le ha divulgate, soprattutto nella comunità giornalistica. Invece hanno causato astio, con Greenwald classificato, da altri giornalisti, come persona in qualche maniera sgradita.
David Gregory, conduttore di Meet the Press alla NBC, si è chiesto se Greenwald debba essere 'accusato' per 'aver aiutato e incoraggiato Edward Snowden', dubitando sia un vero giornalista.
Jeffrey Toobin, del New Yorker e della CNN, ha paragonato il compagno di Glenn Greenwald, trattenuto all'aeroporto di Heathrow per nove ore, ad un "corriere della droga".
E Willard Foxton, blogger dell'edizione britannica del Telegraph, ha definito Greenwald "strano" e ha iniziato un suo pezzo domandandosi 'perché a volte si chieda il motivo per cui non gli piaccia Glenn Greenwald'.
Anche Snowden, la fonte, è stato diffamato, nonostante abbia messo in gioco la propria libertà per rivelare fino a che punto arrivi la sorveglianza digitale, così come Chelsea Manning, che rimarrà in prigione 35 anni per aver consegnato a Wikileaks documenti dell'ambasciata americana; come Julian Assange, su cui un inviato del Time ha twittato, "Non vedo l'ora di scrivere in difesa dell'attacco di un drone che fa fuori Julian Assange".
Come ha scritto David Carr sul New York Times, "A che stiamo pensando?". Perché siamo così sconvolti da persone che denunciano storie tanto importanti, significative, devastanti? Ci sono diversi tipi di giornalisti - quelli che si sforzano di essere neutrali più che possono e quelli che dichiarano felicemente le proprie posizioni politiche in modo trasparente. Sicuramente vogliamo il maggior numero possibile di persone diverse che fanno giornalismo.
Invece abbiamo giornalisti che litigano con giornalisti.
Minacce reali al giornalismo
Nel frattempo esistono minacce molto reali nei confronti del giornalismo che rendono meschine queste beghe interne.
Come ha dichiarato il direttore Alan Rusbridger "i governi stanno mischiando il giornalismo con il terrorismo, usando la sicurezza nazionale per giustificare l'impegno nella sorveglianza di massa. Le implicazioni, volendo considerare solo lo svolgimento della professione di giornalista, sono enormi".
Cosa succede alle fonti dei giornalisti se tutti i nostri metadati, le tracce delle nostre email e delle telefonate, sono a disposizione di questo governo, di società non responsabili e di ogni governo futuro? Tribunali segreti e uomini politici davvero impediranno la sorveglianza di conversazioni tra un giornalista e una fonte, quando i compagni dei giornalisti sono trattenuti all'aeroporto di Heathrow, grazie alla legge anti-terrorismo, e quando fonti di giornalisti vengono mandate in prigione per 35 anni? E perché non ci sono giornalisti furiosi dinanzi a questa minaccia per il giornalismo? Focalizzando l'attenzione sulla perdita del nostro status, come due uomini calvi che litigano per un pettine, potremmo star perdendo di vista la più grande storia sulle nuove tecnologie che rendono quasi impossibile fare giornalismo.
Chi è un giornalista?
"Chi è un giornalista?" è la domanda che viene posta, in un classico esempio di una sorta di auto-esame che avviene in un momento di crisi.
Margaret Sullivan scrive sul New York Times che "un vero giornalista è chi capisce, fino in fondo, non evitandolo, il rapporto conflittuale tra il governo e la stampa". Mi piace questa definizione, perché si riferisce a uno stato mentale, non a una situazione chiusa. I giornalisti hanno bisogno di essere al di fuori di tutti i tipi di potere - politico, istituzionale, aziendale. Siamo qui per scoprire cose che altrimenti non si conoscerebbero - e mentre l'esperienza e le tecniche giornalistiche sono qualifiche eccellenti, non c'è bisogno di una tessera per farlo.
Yochai Benkler, che ha testimoniato al processo Manning lo scorso luglio, ha dichiarato che il giornalismo non è quello che si racconta di se stessi, è ciò che si fa: "Non è un'organizzazione esclusiva o un'identità individuale. È un comportamento".
Il giornalismo come comportamento. Giornalismo come qualcosa che si fa, non qualcosa che si è.
In un post provocatorio dal titolo 'Non ci sono giornalisti' Jeff Jarvis ha scritto: "Chiunque può [adesso] fare giornalismo... chiunque informa chiunque. Abbiamo bisogno di riconsiderare il giornalismo non come produzione di contenuti, ma come un servizio, il cui obiettivo è un pubblico informato".
La gente fa giornalismo ovunque.
In difesa del giornalismo
Tuttavia, nella società, c'è un ruolo cruciale per i giornalisti.
Come hanno detto Anderson, Bell e Shirky "ora e per il prossimo futuro abbiamo bisogno di un gruppo di lavoratori a tempo pieno che scrivano cose che qualcuno da qualche parte non vuole segnalare, e che lo facciano in un modo che non si limiti a rendere disponibili delle informazioni, ma costruendo quelle informazioni in maniera che esse raggiungano e colpiscano il pubblico". E non è necessariamente semplice.
I reportage originali sono spesso incompresi da chi non li fa, spesso percepiti come più semplici di ciò che sono in realtà. Possono essere complessi e cervellotici, faticosi e complicati. Bisogna coltivare una fonte per molti mesi in modo che fornisca una storia. Avere la capacità di individuare una storia; la percezione quando qualcosa non va e se qualcosa viene nascosto. Fare domande scomode. Ottenere frammenti importanti di informazioni da un testimone. Saper parlare al telefono. Saper dove trovare un determinato documento pubblico o una parte di dati, consapevole di quello che si sta cercando. Sapere come e quando sfidare un amministratore delegato o leggere tra le righe di quello che viene detto; avere autocontrollo per sfidare un politico col quale potresti altrimenti essere d'accordo. Sapere quando andare avanti con una storia e quando aspettare. Avere il coraggio di resistere alle pressioni degli altri - polizia, politici, giornalisti di altre pubblicazioni - o, nel caso dell'inchiesta del Guardian, sullo scandalo delle intercettazioni telefoniche in Gran Bretagna, di tutti e tre insieme.
Nessuna di queste cose è semplice come chi non è giornalista spesso immagina.
Di chi fidarsi nell'era digitale?
Condurre inchieste serie e trasparenti, è un modo per essere attendibile. E sulla fiducia, in questa era digitale, bisogna lavorarci: dopo tutto, in quella piazza, nell'agorà, qualcuno ha bisogno di essere quello a cui la gente crede e che può confermare alcune storie e sfatarne altre. Chi sarà? Il giornalista che verifica o quello che interpreta?
Durante i disordini del 2011 in Inghliterra, il Guardian ha realizzato una grafica interattiva che mostrava come si siano diffuse le voci su Twitter in quell'occasione. Mi piace Twitter, ha cambiato la mia vita, ma quanto ci si può fidare? Quanto ci si può fidare di qualsiasi cosa? Nella grafica si può vedere, ad esempio, quanto una storia falsa su alcune tigri in fuga dallo zoo di Londra sia diventata virale. Questo è il mondo pre-Gutenberg in azione: una voce si alza, si diffonde e poi viene annullata. Le voci false sono solitamente superate: al termine la gente arriva alla verità. Ma solo se si segue fino alla fine.
A volte, le voci false non vengono eliminate.
Ad aprile 2013, poche ore dopo l'esplosione delle bombe alla maratona di Boston, Sunil Tripathi e Mike Mulugeta sono stati individuati come sospetti su Reddit e Twitter. La gente era talmente sicura che fossero loro i colpevoli, che uno dei tanti avvoltoi ha twittato "Se Sunil Tripathi è effettivamente l'autore delle bombe di Boston, Reddit ha ottenuto una significativa vittoria rivoluzionaria". Tripathi era uno studente scomparso, completamente estraneo alle bombe. Mulugeta semplicemente non esisteva. Ma, come ABC Media Watch ha mostrato, alcune agenzie di stampa hanno seguito quella linea, inclusi tre canali televisivi e tre testate giornalistiche australiane. Reddit si è scusato pubblicamente mentre la maggior parte dei mezzi di comunicazione tradizionali non l'ha fatto.
Alcuni social network avevano fallito catastroficamente - la piazza cittadina del gossip aveva etichettato le persone sbagliate. Ma alcuni media tradizionali hanno fallito ancora più catastroficamente, riferendo fatti appresi tralasciando l'obbligo della verifica e senza riconoscere gli errori quando hanno saputo che si trattava di notizie false. Questa storia è un caso studio del caos in cui ci troviamo. Gli aspetti negativi della piazza cittadina pettegola, confermati da coloro che si riteneva essere affidabili.
È ormai noto vi sia una crisi di fiducia nei media. Il barometro della fiducia di Edelman per il 2013, a livello mondiale, piazza i media solo poco prima di banche e servizi finanziari, in termini di fiducia pubblica. In Gran Bretagna, lo scandalo delle intercettazioni telefoniche ha provocato un grande allarme nell'opinione pubblica sui metodi adottati da alcuni giornalisti, in particolar modo riguardo alla gente comune. L'Australia si è classificata 24ma su 26 paesi, davanti a Turchia e Russia. Senza dubbio, i giornalisti hanno tradito la fiducia grazie alle intercettazioni telefoniche, allacciando relazioni corrotte con funzionari o avvicinandosi troppo a persone potenti delle quali dovrebbero essere tenuti a rendere conto. Quindi, se vogliono guadagnare la fiducia del pubblico, hanno una battaglia tra le mani. Sicuramente il modo migliore, l'unico modo, per i media, è farlo in modo corretto. Meglio arrivarci in ritardo ed essere corretti. Ancora meglio arrivare in ritardo, essere corretti e anche trasparenti su come ci si è arrivati.
L'alternativa è pubblicare qualcosa che non sia vero, come le tigri che attraversano Londra, ottenendo un sacco di traffico.
A cosa serve il giornalismo?
Credo che tutto dipenda da ciò che si pensa il giornalismo serva.
Se si pensa serva a dire la verità al potere, se si ritiene che il ruolo del giornalista sia da outsider, allora si sarà favorevoli al web aperto, al giornalismo aperto, al libero flusso dell'impegno, della sfida e del dibattito con le persone conosciute precedentemente come pubblico.
Ma se si ritiene che il giornalismo serva per negoziare il potere, influenzare il potere, mantenere il potere, allora il web dovrà essere chiuso il più possibile e mantenere il dibattito al livello minimo più sui propri interessi che sull'interesse pubblico.
È a questo punto che il problema della proprietà dei media diventa il fulcro cruciale. A mio avviso, la proprietà del Guardian è il segreto del suo successo digitale e della rapida crescita fino a 40 milioni di utenti facendolo diventare il terzo sito al mondo di notizie in lingua inglese. Il Guardian appartiene alla Scott Trust e la mancanza di un proprietario o di soci ci dà una vera libertà editoriale: tutto il denaro deve essere reinvestito nel giornalismo. E l'apertura ai lettori e al web si sposa con questo spirito. Ciò significa che le persone si rivolgono a noi con le loro storie, perché sanno che siamo indipendenti, sia che si tratti di Edward Snowden o Julia Gillard, vuol dire che i lettori sono propensi a fidarsi delle nostre motivazioni, a fidarsi perché non stiamo facendo qualcosa a fini commerciali o per vantaggi politici.
A molti proprietari di mezzi di comunicazione non piace il web aperto, perché mina le gerarchie in modo drammatico e visibile.
La crescente concentrazione della proprietà dei media causa meno varietà e meno scelta per i lettori e, probabilmente, più noncuranza in coloro che ne sono esclusi. In Australia c'è la più alta concentrazione di proprietà dei giornali del mondo, dominata dalla Rupert Murdoch News Corp, e con le prime tre società di giornali che detengono il 98% della tiratura giornaliera, rispetto al 26% degli Stati Uniti e al 62% nel Regno Unito.
Come abbiamo visto precedentemente, la rivoluzione digitale non è solo un cambiamento tecnologico. È un cambiamento di potere. Il web aperto ha il potenziale per essere un enorme spazio democratico, anche meglio della piazza della cittadina greca, perché le donne possono parlare, così come gli schiavi. Con internet, le porte sono aperte a chiunque, attualmente al 39% della popolazione mondiale, contro il 16% di appena otto anni fa. Ma potrebbe non andare avanti così. Da un po' il web è frammentato: invece di un'unica internet, ci sono molti prodotti e piattaforme diversi: desktop, Android, iPhone, tablet. Come Jonathan Zittrain ha scritto, “dispositivi legati” come gli iPhone hanno portato ad una chiusura dell'innovazione del web. Adesso è più difficile mantenere l'anonimato online. Sappiamo che ogni pagina che consultiamo può essere monitorata da agenzie di spionaggio internazionale. E, alla luce di queste rivelazioni, è nata una nuova questione: paesi come il Brasile stanno discutendo seriamente di dotarsi di una 'rete nazionale'. Così, invece di una rete mondiale, ci troviamo di fronte alla prospettiva di una rete brasiliana, una rete americana, forse una rete australiana. Che perdita sarebbe!
Se aziende tecnologiche, proprietari di media e alcuni governi hanno interesse a chiudere la rete aperta, non si avrà possibilità di giungere a quell'utopia democratica che alcuni stanno immaginando.
Disegnando un nuovo giornalismo
Questo non significa non valga la pena provare. Abbiamo il privilegio di vivere in un'epoca di grande transizione, di poter contribuire a definire un nuovo giornalismo per una nuova era.
Ricordate la parentesi di Gutenberg di 500 anni?
All'inizio, c'era un confronto completamente aggrovigliato, ma nessuna versione chiara della verità.
Poi, c'è stata una versione molto chiara della verità, ma nessuno spazio per il confronto.
Ora, ciò che abbiamo è la verità resa migliore attraverso il confronto.
Cosa accadrebbe se abbracciassimo l'ecosistema del web unendo le vecchie tecniche giornalistiche con i nuovi modi di cercare, raccontare e comunicare le storie? Aprendoci? Mettendo le persone in precedenza note come pubblico al centro di tutto? Unendo l'élite con la strada ... e il tweet?
Non l'istinto o i dati: entrambi.
Non il telefono o Twitter: entrambi.
Non giornalisti neutrali o giornalisti politicizzati: entrambi.
Non segnalazione originale o verifica,
giornalisti o blogger,
giornalisti o attivisti,
giornalisti o lettori.
Il futuro del giornalismo, con umiltà, è tutte queste cose messe insieme.