Questa settimana su RoundUp: il disinteresse dei millennial nei confronti dell'informazione; il dibattito attorno alla pubblicazione della foto che ritrae l'ambasciatore americano a Bengasi Chris Stevens in fin di vita, coi punti di vista della Public Editor del New York Times e del direttore de Il Post Luca Sofri; l'emorragia nella news industry, che perde 25 dollari via cartaceo per ogni dollaro guadagnato sul digitale; il nuovo USA Today, che cerca nuovi strumenti per rendersi più appetibile agli occhi degli inserzionisti; e infine i consigli di Columbia Journalism Review e Poynter per pubblicizzare se stessi al meglio in rete.
Per i giovani informarsi non è una priorità
I giovani dimostrano di avere poco interesse nei confronti delle news e di nutrire poca stima nel sistema dell’informazione: è la tesi esposta dalla professoressa della University of Texas Paula Poindexter nel libro Millennials, News, and Social Media: Is News Engagementa Thing of the Past?, riportata questa settimana dal blog del giornalista americano Jim Romenesko.
I punti chiave dimostrati dalla ricerca portano a conclusioni sconfortanti per il settore dei media e per il giornalismo - inteso meno prosaicamente come “missione” - in genere: i cosiddetti millennial - la generazione di ragazzi nati tra il 1980 e il 1990 - definiscono l’informazione come «spazzatura», mezzo ad uso e consumo della propaganda, qualcosa di ripetitivo e noioso alla quale non è necessario prestare troppa attenzione, tanto da non giudicarla fattore capace di influenzare la vita di tutti i giorni e non ritenere l’essere informati una priorità.
Saremmo quindi al cospetto di una sorta di ‘assurdo’, se si considerano mezzi, capacità e pervasività dei media nello scenario attuale: è per questo che l’autrice - incoraggiata dal dato emerso dalla ricerca che dimostrerebbe quanto i giovani si sentano poco raccontati, o raccontati male, dai media attuali - ha cercato quindi di dare vita a un esperimento che intende in qualche modo invertire la tendenza: raggiungere i millennial su uno dei loro campi, Facebook, con una pagina (Millennials and News - 458 fan, pochi I like, pochi commenti) che condivide notizie utili e selezionate per questo tipo di pubblico. Per incoraggiare dibattiti e invogliare i ragazzi a crearsi un metodo di lettura, a trovare familiarità e continuità coi mezzi d’informazione. Perché «nel futuro potremmo non avere più lettori, e non possiamo continuare a ignorare il problema».
La foto dell’ambasciatore Stevens
Nella notte fra l’11 e il 12 settembre una serie di proteste contro le ambasciate americane in Libia e Egitto ha portato all’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore Usa Chris Stevens. Nella giornata di mercoledì sono state pubblicate dalle agenzie le foto dell’uomo, ferito o comunque in fin di vita, che hanno portato le redazioni - come spesso accadi in episodi del genere - ad interrogarsi sull’opportunità o meno della pubblicazione sui siti web e sui giornali del giorno dopo (qui in breve le maggiori testate che hanno scelto di mandarla in stampa).
Il New York Times, sul blog della Public Editor Margaret Sullivan, ha deciso di spiegare la scelta del gruppo. «Qual è il confine fra buon senso e notizia?», si chiede la rappresentante dei lettori sul suo blog, che cerca di rispondere alle proteste dei molti che si sono lamentati per la pubblicazione della foto in una gallery sul sito. La decisione, spiega, è stata ponderata a lungo ma alla fine per mano dell’Associate Managing Editor Ian Fisher si è deciso di pubblicare un’immagine che, benché «orripilante» è comunque notizia: per quanto violenta e toccante, «se si accetta l’idea che ogni vita umana ha pari valore e dignità» e si decide generalmente di pubblicare immagini simili provenienti da Iraq e Siria - o si pensi alla stessa morte di Gheddafi - allora non ci sono obiezioni, ci si trova davanti a «un imperativo giornalistico». «It’s news».
Diverso il punto di vista del direttore de Il Post Luca Sofri, che racconta come la scelta di non rendere pubblica la foto dell’ambasciatore sul loro giornale sia stata difficile e comunque non risolutoria. «Io credo non ci siano in cose come questa verità esatte. Non esiste una cosa definitivamente giusta», ha commentato in un intervento nato da una conversazione su Twitter. «Gli standard di selezione e responsabilità di chi fa queste scelte in Italia sono così saltati, che a volte è come giocare in un campo con le buche profonde un metro. Finisce che ti guardi sempre davanti e a volte ti fermi anche se la buca non c’è, per prudenza».
25 dollari persi sulla carta per ogni dollaro guadagnato sul digitale
Riuscirà mai il digitale a coprire le perdite economiche derivanti dal crollo delle inserzioni sulle testate cartacee? Il tema dei new media ancora insufficienti a garantire un futuro sostenibile al settore, già affrontato pochi giorni fa, si arricchisce questa settimana di un dato che sembra confermare le tendenze poco ottimistiche: secondo la Newspaper Association of America, a fronte di una perdita nella prima metà del 2012 di ben 798 milioni di dollari nel settore della stampa tradizionale, si è registrato, in lieve controtendenza, un guadagno di soli 32 milioni per quanto riguarda l’area digital.
Semplificando, un dollaro in entrata grazie ai nuovi media, contro i 25 in uscita dai giornali cartacei. Ben peggio del rapporto - già disastroso - di 10 a 1 già calcolato da State of The News Media all’inizio di quest’anno. Ancora lontane le soluzioni a questioni già largamente note: l’inesistenza, ad oggi, di un business model valido e alternativo, la concorrenza - nel settore della pubblicità - di giganti online native come Google, Facebook e Amazon, i ricavi derivanti da smartphone e tablet, ancora lontani dal rappresentare una fonte significativa di sussistenza. Malgrado ciò, stando a un sondaggio della Missouri School of Journalism del Reynolds Institute, la maggior parte degli editori dei quotidiani americani sarebbero ottimisti sul futuro dei loro prodotti: il 65% fra gli intervistati si è infatti detto «moderatamente» o «totalmente ottimista», 4% i pessimisti e 31% i neutrali.
Uno sguardo fiducioso verso il domani che proviene, in larga parte (ben l’83%), dagli editori di testate con diffusione media al di sotto delle 50 mila copie. Intanto, secondo alcuni dati pubblicati dal National Readership Survey, ricavati da uno studio che combina per la prima volta dati sul readership digitale e non, The Guardian avrebbe ormai più lettori nella versione online che in quella cartacea.
Le inserzioni a tutta pagina del nuovo USA Today
USA Today è il secondo giornale più letto negli Stati Uniti. Dopo trent’anni, ieri mattina i lettori hanno trovato in edicola una versione totalmente ridisegnata del loro quotidiano: una grafica più moderna, una testata aggiornata ai gusti dell’epoca - essenziale e con tanto di pallina-logo cangiante in base alla notizia del giorno -, più colori.
Ma soprattutto, sarà la versione online a subire i più grossi cambiamenti: l’edizione digitale di USA Today sarà infatti una specie di esperimento per quanto riguarda la raccolta pubblicitaria. Niente più sito in formato standard, ma una sorta di giornale online sfogliabile con un clic (versione desktop) o con le dita (da dispositivi touch), dalle pagine più larghe e capienti e capace - ed è questa la vera novità - di contenere e disporre meglio le inserzioni pubblicitarie.
Anche per una pagina intera, con video più simili agli spot televisivi, nel tentativo di offrire sempre più spazi - e di maggior valore - al mercato degli inserzionisti. Il sito resterà totalmente free, dal momento che «stiamo cercando di introdurre nuove forme di consumo delle news, e vogliamo offrirle gratis» ha spiegato la società per bocca del suo numero uno Larry Kramer. Al quale fa eco David Payne, capo del settore digitale del gruppo Gannett, editore della testata: «Siamo bloccati in un ecosistema che si limita a piccoli box nelle pagine. Volevo che tutto ciò cambiasse». Meglio allora proporre schermate intere che piccoli spazi da contendere ad altre inserzioni e agli articoli: «the device becomes just another television».
Promuovere se stessi in rete
Come promuovere il proprio lavoro giornalistico - e se stessi - su internet?
Ann Friedman, su Columbia Journalism Review, questa settimana cerca di dare qualche consiglio. Innanzitutto, non fare dei propri account Twitter e Facebook dei semplici contenitori di link ai propri prodotti: è necessario divertirsi, rispondere ai commenti, creare comunità - e ne abbiamo parlato in settimana -, condividere contenuti di vario tipo, e per i propri articoli non limitarsi al solo titolo, ma usare «citazioni tratte dal pezzo, o domande o battute». Su Twitter, soprattutto, pubblicare solo qualche contenuto all’ora e «ritwittare con parsimonia». Quanto al proprio sito personale, sarebbe necessario considerarlo un posto in grado di dire il più possibile dell’autore: chi professionalmente potrebbe interessarsi al vostro profilo «vorrà vedere rapidamente chi voi siate, le vostre esperienze, gli interessi». E quindi, fondamentali: «una breve biografia con tanto di foto (non siate timidi!), un archivio aggiornato dei vostri lavori, link agli account sui social e ai progetti paralleli, le informazioni di contatto»: il blog deve fare da collettore dei vostri pensieri, quelli «più lunghi di 140 caratteri o degli status di Facebook: un posto dove promuovere i lavoro degli amici così come il vostro».
Herbert Lowe su Poynter si è invece concentrato su un’«altra grande opportunità» che Twitter offre agli utenti per promuovere la propria figura online: avvantaggiarsi, come giornalisti o aspiranti tali, dei twesume, le ‘bio’ personali. L’autore fornisce sette consigli per creare la ‘twitter bio’ perfetta: fornire le informazioni di base (chi siete, titoli accademici, carriera, aspirazioni lavorative), dimostrare di saper scrivere anche in così poche battute, tenere sempre in considerazione il pubblico al quale ci si sta offrendo («Maxwell says that “who you are is who you attract”») sfruttando tutti i caratteri disponibili, puntare dritti all’obiettivo, mostrando il più possibile se stessi in modo accettabile (nome e cognome, evitando foto «sciocche»), cercare di inserire i propri interessi e i link esterni ai propri lavori e ai contatti personali. Infine, aggiornare continuamente, mostrando sempre «the best, most recent version of you».