Nell’epoca dell’agorà virtuale leader politici, guru e capitani d’impresa possono parlare ogni giorno a milioni di persone bypassando le domande dei giornalisti. Spot, video dirette, frasi ad effetto sostituiscono davvero la cara vecchia intervista? O sono proprio le domande il bagaglio del professionista, il valore aggiunto per orientarsi in una realtà sempre più complessa e veloce? Cosa spinge ancora oggi i potenti a confrontarsi con la graticola dei mezzi d’informazione?
“Il potere ha sempre voluto servirsi di qualcuno come megafono e quando sono nati i social media li ha colti al volo – spiega Luigi Contu - Il potere non ha mai voluto le domande difficili o intermediari. Per chi fa il nostro mestiere è un problema, ma soprattutto è un problema per i cittadini”. “Ci sono interviste che devono essere fatte per dovere, dove entrambi farebbero a meno dell’altro – dice Dino Amenduini – e una dinamica che “soffro” è la tendenza nefasta che ormai è quasi consuetudine, che il politico decide di andare in programma solo se il giornalista passa precedentemente le domande. Si chiama compromesso. Uno spazio di opacità dove i politici propongono un modello giornalistico inaccettabile e dove i giornalisti accettano”. “Le testate per troppo tempo, dobbiamo ammetterlo, sono state il megafono dei politici – spiega Giuseppe De Bellis – Abbiamo avuto un sistema per cui il mondo dell’informazione si reggeva sulla dichiarazione, inquinando il nostro modo di fare informazione. Ha generato un sistema basato sulle dichiarazioni. A un certo punto il pubblico sarà assuefatto da questo sistema. Dobbiamo accettare solo interviste che abbiano un senso e farne di meno”.
Benedetta Baronti - volontaria press office IJF19