Questa settimana in RoundUp: [tweetable]il Financial Times decide di farsi un po' più digital e un po' meno cartaceo[/tweetable]; [tweetable]il futuro: aprirsi ai lettori sfidando ritrosie e paywall[/tweetable]; [tweetable]analizzare il feedback degli utenti in chiave editoriale e pubblicitaria[/tweetable]; [tweetable]fondere old e new media per ripensare le redazioni[/tweetable].
La svolta digital del Financial Times
Quando grandi attori sperimentano nuove strade si fa forte la sensazione di trovarsi davanti a un passaggio storico, data la forza simbolica e trainante di chi mette in campo quest'innovazione. È il caso del Financial Times, che pochi giorni fa ha dato 'mangime' fresco per dibattiti e emulazioni con la scelta di rivedere radicalmente il proprio prodotto, il modo in cui viene confezionato e il risultato finale della sua produzione. Il giornale, come riportato in un memo del direttore Lionel Barber, ha deciso di [tweetable]anteporre la vocazione digital a quella cartacea scegliendo di ‘comprimere’ il quotidiano a una sola edizione globale[/tweetable] da lanciare nei primi sei mesi del 2014 (attualmente propone edizioni diverse in vari paesi) e riconfigurandolo come media di approfondimento e analisi, ricco di dati e tabelle, da abbinare a un portale che si concentrerà sull'aggregazione di contenuti interni e esterni. L’obiettivo del sito sarà infatti aggiungere valore al contesto informativo in rete e ‘dare la linea’ al prodotto che finirà poi in edicola: in buona sostanza, sintetizza Roy Greensdale sul Guardian, [tweetable]un newspaper con meno news su carta a costi e cicli di produzione ridotti[/tweetable], sempre fedele alla linea investigativa, ma con un'agenda che deriva direttamente «dall'offerta web - e non viceversa».
La decisione prende le mosse dai dati sulla diffusione media mondiale del giornale cartaceo, ormai di poco sopra alle 230mila copie quotidiane (agosto 2013), il 15% in meno dei dati dell'anno precedente. Numeri che giustificano la svolta, tanto più se si considera che, come notato dallo stesso Barber, la testata registra circa 100mila abbonati digitali in più rispetto alle copie effettivamente vendute in edicola, raggiungendo un totale (fra digitale e diffusione) di seicentomila lettori - secondo Laura Hazard Owen di GigaOm i sottoscrittori digital si aggirerebbero, quindi, attorno alle 400mila unità. Andrea Kannapel del New York Times ha definito questa svolta [tweetable]la cosa più simile alla transizione da carta a all digital che sia mai stata proposta a questi livelli[/tweetable]. Kevin Anderson si chiede se non sia il momento di chiedersi cosa debba fare un giornale nell'era digitale: questa scelta - spiega - non emarginerà il giornale, che continuerà comunque a mandare in stampa un prodotto in grado di dire la propria su tutte le notizie più rilevanti, ma è evidente come il passaggio sia rivoluzionario e indicativo per tutti, e quanto l’industria e i suoi leader abbiano ancora voglia di accettare sfide del genere e affrontare il futuro.
Scavalcare il paywall
Una risposta cerca di darla l'editor in chief di Guardian Australia Katharine Viner in un intervento pubblico a Melbourne. Il suo discorso, trascritto sul sito, è [tweetable]un ritratto completo e programmatico dello stato del giornalismo oggi e domani[/tweetable], del rapporto con gli utenti e la centralità dei lettori, di come la rete ha rivisto la pubblicità dell'informazione e i suoi flussi. La sua è [tweetable]un'idea d’informazione che non impone la struttura-giornale alla Rete, ma dell'«ecosistema del web»[/tweetable], come lo definisce, esserne parte sia in termini strutturali - con un'offerta ‘aperta’ - che «psicologici»: non basta più riproporre i classici prodotti giornalistici in Rete e sperare che il lavoro si esaurisca con la loro pubblicazione, piuttosto bisogna ripensare necessariamente alla vita del prodotto in rapporto a come viene accolto e discusso dai propri lettori, presentarsi come aperti e ricevere da loro gli input necessari alla costruzione di una credibilità pubblica. Uno scambio quasi paritario col lettore, che può diventare fruttuoso in termini di credibilità e trasparenza come nella produzione e nella verifica delle notizie - e da questo punto di vista, specie con l'apporto di 'professionisti' del crowdsourcing come Paul Lewis, il Guardian si è sempre imposto come modello globalmente riconosciuto.
Dalla necessità di un giornalismo aperto, disposto al confronto, nasce la critica quasi 'politica' al sistema-paywall: [tweetable]come può il futuro del giornalismo mettersi al sicuro dietro un paywall se quello stesso futuro è al di là di questo?[/tweetable] Il sistema del muro a pagamento è infatti percepito dall'autrice come «antitetico» rispetto alla caratura open del web, una versione attualizzata della vecchia stampa priva di interventi esterni e discussioni pubbliche, una sorta di riedizione digitale della carta, di quel sistema che viene definito dallo studioso danese Thomas Pettitt la "parentesi Gutenberg": i cinquecento anni, dal XV al XX secolo, nei quali l'informazione viene distribuita in modo unilaterale solo su supporti fissi, stampati, indiscutibili. [tweetable]«Non si può godere dei vantaggi dell'open web se ci si nasconde»[/tweetable], spiega la giornalista del Guardian: il rischio è riscoprirsi antistorici, legati a un’idea di lettore ormai superata - quella di semplice attore passivo pagante - e di giornalista come depositario unico e incontrollato dell'informazione - che ormai viaggia e viene discussa sotto forma di «flussi liberi» (free flow). La sfida, dunque, è oltrepassare questa «barricata» strutturale e ‘mentale’ e [tweetable]adattare il giornalismo a un’evoluzione non più solo meramente tecnologica: combinare strada e élite[/tweetable], plasmare la produzione classica nell'ecosistema web, abbracciare attivismo, blogger e lettori.
La centralità del lettore
Che le redazioni siano totalmente da ripensare è piuttosto evidente anche per Raju Narisetti, Senior Vice Presidente di NewsCorp, in un intervento all'International Newsroom Summit di Berlino. [tweetable]Non è più tempo di chiedersi se sia necessario un approccio digital o print first[/tweetable], ammonisce Narisetti: è piuttosto il momento di dare centralità al lettore. E non è solo un modo di accogliere indirettamente l'invito di Katherine Viner ad abbracciare l'intervento dell'utente ([tweetable]«News will have to go to readers – they don’t have to come to us»[/tweetable]), ma anche un’occasione per ricordare a editori e giornalisti che analizzare il modo in cui il pubblico vive i loro prodotti, e quindi essere in grado di interpretarne il feedback, è necessario per rappresentarne i gusti in chiave pubblicitaria e editoriale: i giornali hanno a che vedere con competitori più agguerriti che mai, rammenta Narisetti, avversari che gareggiano con armi nuove e diverse: la pubblicità va spalmandosi su più piattaforme, e gli inserzionisti stessi hanno capito che per riuscire a ‘vendersi in rete’ devono raccontare storie in maniera autonoma, diventare storyteller in grado di vivere della propria narrazione senza diffonderla necessariamente su più canali di distribuzione. L'invito quindi è d'obbligo: [tweetable]bisogna piacere a tutti, contemporaneamente a lettori e inserzionisti[/tweetable].
Il panorama in questo senso sta cambiando rapidamente: questa settimana Ken Doctor di Nieman Journalism Lab ha affrontato il tema della pubblicità sulla stampa al World Publishing Expo, concentrando alcuni dati: [tweetable]la pubblicità sulla carta stampata a livello globale è crollata del 39%[/tweetable], l'equivalente di 51 miliardi di dollari fra 2007 e 2013, ma allo stesso tempo c'è spazio per nuovi investimenti sul digitale, partendo però dalla posizione di ‘handicap’ che vede i due terzi della spesa per la pubblicità online - come abbiamo già visto - andare a favore di Google, Facebook, AOL, Microsoft e Yahoo. Doctor propone alcune alternative per adattarsi a questo scenario e arrivare al 2014 con un vantaggio strategico: inventare forme di marketing e nuove offerte agli inserzionisti; ideare un modello di paywall diverso («paywalls 2.0»), più elastico nei confronti della domanda dei lettori; «vendere più cose», servizi e prodotti digitali che vadano oltre lo standard giornalistico tradizionale - da segnalare, in questo senso, la recentissima adozione da parte di BBC di una piattaforma di streaming musicale in collaborazione con Spotify, YouTube e Deezer, o ancora i tentativi di diversificazione del prodotto che sta lanciando il Washington Post.
La fusione tra old e new media
[tweetable]«C'erano una volta gli old media»[/tweetable] esordisce Bob Cohn di Atlantic su FolioMag: un lavoro lento di editing, contro-editing e controllo. «Poi fu Internet», veloce e affamato, in una dicotomia che sia lettori che giornalisti avevano imparato grossolanamente a riconoscere: due diversi standard, due mondi a metà fra l'antica accuratezza e un 'far west' frenetico di «pensieri istantanei» (Andrew Sullivan, 2008). Questo mondo ‘selvaggio’ ha però saputo aderire alle regole del giornalismo tradizionale, alle "certezze fondative tipicamente associate ai vecchi media". È la tesi di Cohn, secondo il quale [tweetable]il gap fra digitale e carta, per contenuti e produzione, sarebbe stato colmato - o quantomeno sulla buona strada[/tweetable]: prendendo spunto dalla sua esperienza a The Altantic - tra gli esempi più riusciti di compenetrazione digitale-cartaceo - l’autore riconosce a buon parte delle redazioni di aver capito quanto il lavoro di queste due ‘fasi’ debba essere necessariamente omogeneo (il Corriere della Sera, in Italia, ha recentemente inserito nel nuovo piano editoriale la necessità di una maggiore fusione tra le due parti in redazione). Non si tratta semplicemente di spostare scrivanie in una sola stanza, ma di apprendere il linguaggio degli altri, aderire silenziosamente alle diverse piattaforme, capire per tentativi in che modo proporre il proprio giornalismo e far sì che funzioni per il più vasto pubblico di lettori - e non solo di visitatori - possibile.
Un chiaro esempio di quanto il rapporto fra accuratezza, velocità e viralità in rete sia un equilibrio precario e pericoloso viene da una storia che ha trovato casa su Gawker questa settimana. In qualche modo, in un commento poi riproposto da uno degli autori del sito, viene pubblicata la foto di una lettera proveniente da Facebook nella quale un padre disconosce la figlia che a sua volta aveva rinnegato il proprio figlio gay. La redazione decide di discuterne pubblicamente, dubbiosa sull'autenticità di quello che poi si è rivelato essere un fake da 17 mila like e 9mila condivisioni. [tweetable]«Meglio una bufala strappalacrime o una disarmante verità?»[/tweetable]: è la domanda che il fondatore del sito Nick Denton si pone e fa ai propri lettori su Twitter condividendo il post che raccoglie tutte le loro perplessità sulla vicenda, ma invitando anche discutere del processo di produzione di news in rete: si tratta di un sistema spesso avido di notizie incontrollate dall’alto potenziale di contatti, storie senza verifiche che si lasciano circolare proprio perché 'circolano', alterando l’equilibrio tra la natura virale dei contenuti online e l'accuratezza giornalistica - due obiettivi, spiega l'editor in chief di Gawker John Cook, che storie come queste dimostrano come spesso siano in contrasto.