Come cambia (anche) il giornalismo nell’era dell’automazione, della iperconnessione e del dominio del tecnologicamente controllato? Quali conoscenze e competenze sono necessarie? Come ri-definire e ripensare i percorsi formativi? Ma, soprattutto quale approccio/quali approcci adottare? La civiltà ipertecnologica sembra sempre più basarsi sulla progressiva marginalizzazione dell’Umano e dello spazio della responsabilità e le dinamiche, che caratterizzano l’ecosistema globale dell’informazione e della comunicazione, (ri)disegnano scenari e orizzonti difficilmente comprensibili e prevedibili. Contrariamente a certe narrazioni sulla trasformazione digitale, ancora poca la consapevolezza che tale processo (complesso) abbia determinato un aumento della complessità e non una semplificazione. Allo stesso tempo, ancora poca la consapevolezza che, proprio nell’era della cd. dis-intermediazione (?), ci sia un disperato bisogno di figure (preparate), processi e istituzioni che continuino a svolgere proprio quella funzione essenziale di mediazione. Il giornalismo, in tal senso, pur attraversando una fase di transizione non semplice, continua ad avere una funzione strategica proprio nel tentativo di gestire il sovraccarico informativo e la disinformazione. In questo scenario, il “vero” compito (la responsabilità) del giornalista – e, in fondo, di tutti coloro che si occupano di comunicazione, ma anche di educazione e formazione - più che quello della semplificazione/facilitazione, diventa quello di aiutare l’utente/il lettore/il cittadino ad avere sempre davanti a sé, nella prospettiva di un approccio critico e sistemico, proprio la complessità e l’imprevedibilità. Solo questa “visione” può rendere consapevoli dei meccanismi della semplificazione e dei loro rischi ogni volta che vengono applicati. Abbiamo ancora bisogno di un giornalismo che, mentre informa, educa alla verifica, alla scelta delle fonti, alle domande pertinenti. Una questione cruciale, una questione di educazione e formazione al “metodo scientifico”.

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