Raccontare le migrazioni globali. Non è una crisi dell’Europa. È una crisi del mondo

Maria Gianniti, inviata esteri del Tg1, modera l’incontro del 5 aprile in Sala dei Notari con il fotoreporter Agus Morales, autore di Non siamo rifugiati (2018), che porta al Festival del Giornalismo di Perugia il viaggio in Siria, Afghanistan, Pakistan, Repubblica Centrafricana e Sudan del Sud e Francesca Mannocchi, reporter in molte zone di conflitto, autrice di Io Khaled vendo uomini e sono innocente (2019) che racconta la Libia, i centri di detenzione e il traffico di migranti.
Secondo Morales il rifugiato è il volto più immediato di un cambiamento storico che non riguarda solo l’Europa: oggi decine di milioni di persone non sono “rifugiati” perché non ottengono asilo e l’Europa ne è diventata consapevole solo una quindicina di anni fa. Dal 2013 è la Turchia che ha il più alto numero di rifugiati siriani, per trent’anni è stato il Pakistan che accoglieva gli afghani. I paesi devono fare una proiezione reale: non per scelta morale, ma perché la storia è cambiata. Dopo la seconda guerra mondiale, la maggior parte dei rifugiati erano europei. Durante la guerra fredda, essere rifugiato politico era quasi una questione di prestigio. Oggi la parola ha cambiato significato: ci sono anche gli sfollati e i migranti. Chi chiede asilo politico non lo ottiene quasi mai.
Khaled del libro della Mannocchi esiste, è uno dei tre trafficanti di uomini che in questi anni ha incontrato in Libia. Il suo libro l’ha posta di fronte a un “mea culpa” sul proprio mestiere. Ha vissuto una sensazione di smarrimento in Libia, di non aver capito completamente il fenomeno. Quindi ha fatto parlare direttamente Khaled. «Quello che non hai capito è quello che hai smarrito, cioè il problema all’origine: la politica dei visti. Il problema principale è che un essere umano è riconoscente verso un trafficante che gli fa attraversare un confine con un gommone perché non può fare altrimenti». Da tre anni c’è stata una cosmesi sul linguaggio: improvvisamente le prigioni sono state definite centri di accoglienza, ma per la legge libica restano prigioni. Se quel governo è il nostro interlocutore politico, ne assumiamo la gestione dello stato: le persone che entrano in Libia senza documento sono considerate clandestini sine die. Non sappiamo precisamente quante siano: nell’ultimo anno e mezzo tre centri di detenzione nella capitale Tripoli sono stati ritinteggiati a festa e sono visitati da ONG e diplomatici, ma parallelamente ce ne sono decine non ufficiali e gestiti direttamente dalle milizie, che non sono solo bande armate coi kalashnikov e le ciabatte. Oggi in Libia ci sono delle reti criminali che – esattamente come la nostra mafia – agiscono per via militare ma anche nei ministeri. I trafficanti hanno capito che possono guadagnare gestendo e ostacolando il traffico di uomini contemporaneamente.
Che sforzo si deve fare per togliere queste persone dalla melma che le fa dimenticare? Morales crede nel lungo termine. Ci sono due approcci alle migrazioni: uno è la xenofobia, l’altro è la vittimizzazione che, alla fine, disumanizza allo stesso modo. La domanda da porsi è: cosa accade dopo? In questo modo si scoprono tante storie, ma non è facile convincere gli editori a raccontarle. Uno degli errori è stato livellare la narrazione su questi esseri umani, trascurandone la spinta vitale, per inseguire una narrativa emergenziale. Le ragioni del movimento degli esseri umani, però, sono fluide: dipendono dalla guerra, dalla siccità o dal diritto sacrosanto di avere una vita diversa da quella che si ha. Sono i dettagli delle storie di ciò che accade dopo che umanizzano anche la brutalità subita. È compito del giornalismo dare rilevanza a questi dettagli – conclude la Mannocchi.

Alessandra Parapatty - volontaria press office IJF19