I'm Barack Obama, Ask Me Anything.
Il payoff di Reddit è 'The Front Page of The Internet'. E per un giorno, o almeno per un'ora, sì può dire sia andata così: mercoledì scorso il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha preso parte a una sorta di 'intervista diffusa' - un format noto sul sito col nome di 'Ask Me Anything' che ha già coinvolto l'economista Krugman e il comedian Louie CK- rispondendo ad alcune delle domande arrivate dagli oltre 200 mila partecipanti. Una «fonte alternativa di giornalismo», secondo Matthew Ingram su GigaOm, «come già dimostrato di recente dall'apporto giunto dal social in occasione di notizie come la sparatoria di Aurora». E se per qualcuno si tratta soltanto di un pessimo modo di trarre informazioni, un format scomodo per ottenere notizie di tipo politico - è la tesi di Alexis Madrigal su The Atlantic - lo strumento, sottolinea Ingram, ha il pregio di far pervenire all'intervistato ogni tipo di domanda, senza filtri, e di essere comunque «solo marginalmente meno informativo di quanto viene riportato mediamente dai giornalisti professionisti sulla Casabianca». Per le testate, d'altronde, non è stato troppo complicato servirsi rapidamente dell'evento e riproporlo secondo il proprio stile: come fa notare Andrew Beaujon su Poynter, a pochissime ore di distanza l'esordio di Obama su Reddit (commentato dallo stesso Potus con la frase di un meme che lo vede protagonista, «Not Bad») era già stato 'impaginato' da BuzzFeed 'alla BuzzFeed', il Washington Post aveva collezionato la «Top five most awesome questions», il Wall Street Journal puntava sulle domande rimaste senza risposta, Slate invece sulla lista di quelle alle quali invece avrebbe dovuto rispondere. E se per qualcuno - come Alex Howard - si tratta addirittura di un pezzo di storia, bisogna comunque ricordare - come nota Beaujon - che l'evento, trending anche su Twitter, è andato online in contemporanea con la convention Repubblicana. E dunque una grande giornata per Reddit e il web, ma anche un altro dei numerosi espedienti propagandistici che una campagna elettorale all'avanguardia, come quella obamiana, può mettere in campo.
Cosa ci fate a Tampa?
Dal punto di vista giornalistico, l'evento di rilievo della settimana è stato appunto la convention Repubblicana di Tampa che ha formalmente scelto Mitt Romney - e suo vice Paul Ryan - come avversario di Barack Obama alle elezioni USA del prossimo novembre. Tra gli avvenimenti più coperti nella tradizione del giornalismo americano, l’evento ha ospitato per cinque giorni più di 15 mila giornalisti: numeri notevoli, in linea con quelli delle convention del 2008 e del 2004, ma evidentemente a mutate condizioni economiche e mediatiche. Tanto da spingere il pluridecorato professor Jeff Jarvis, sul proprio blog, a sfidare i numerosi inviati con una serie di domande: cosa dovremmo imparare da voi? Che informazioni aggiuntive siete in grado di darci? Possiamo ancora permetterci lussi del genere? Insomma: «ma che ci andate a fare a Tampa?». Jarvis snocciola qualche dato: «Immagino che questi 15mila giornalisti spendano 300 dollari a notte per cinque notti in hotel, più 500 per il trasporto - e sono 2000 dollari. E penso godranno di pasti e bevande gratis, quindi 2000 è probabilmente una cifra sottostimata. Fanno 30 milioni in totale. Ora moltiplicate per due convention: 60 milioni. Perché? Per cosa?». L’autore cerca di dare delle risposte: lo definisce «editorial ego», il bello di esserci, il poter dire «Abbiamo uno dei nostri a Tampa». E poco altro, se si pensa alla scontata conferma di Romney o la completa copertura online dell’evento. E considerando che con cifre del genere si possono pagare, mediamente, 600 reporter all'anno, che il settore ha perso quasi 40mila posti di lavoro da metà 2007 e che i presenti saranno chiamati - in sostanza - a rendere conto di chi tra i duemila e più delegati «vestirà degli strani cappelli», Jarvis immagina che l'intera faccenda possa essere riassunta da un'esclamazione inserita a metà post. «It's a waste».
Homepage in crisi
Negli ultimi giorni Adrienne LaFrance si è interrogata sul senso e sul futuro delle homepage per i siti di news. Qualcuno ritiene - spiega in un suo articolo su NiemanLab - che come avvenuto per i giornali di carta, che non si sono estinti ma hanno perso la loro centralità, anche le home dei portali di notizie rischiano se non di scomparire, almeno di essere ridisegnate, o doversi adeguare al cambio d'abitudini dei lettori. Sono ormai numerose le ricerche che certificano quanto buona parte del traffico in entrata verso le testate online provenga dai social network, dai motori di ricerca, da email, insomma da ‘porte di servizio’ che rimandano direttamente all'articolo, saltando la prima pagina virtuale. Senza dimenticare il traffico proveniente via mobile, spesso indirizzato da versioni ottimizzate dei siti, o da app native o dedicate che aggregano contenuti ignorando la composizione della pagina principale. Certamente le tendenze - prosegue LaFrance - sembrano essere e saranno diverse a seconda della testata, se si bada per esempio ai numeri delle homepage di testate come il New York Times - per le quali il brand e la scelta della gerarchia delle notizie è ancora un valore aggiunto - comparati a quelli di portali come BuzzFeed. Ma non basta: un marchio prestigioso come The Atlantic, per ammissione del Digitar Editor della testata Bob Cohn, riesce a convogliare solo il 12% del traffico della testata verso la propria home. Che diventa così «il posto nel quale rendere noti sensibilità e contenuti del sito». Un biglietto da visita, come nel caso di ProPublica, che per bocca del suo News Apps Editor Scott Klein, interpellato dall’autrice, ammette che i numeri relativi traffico in entrata verso i post provenienti da social media, ricerche e affini portano a fare dell’homepage - sempre meno consultata dai lettori - uno spazio dove esprimere visione e missione dell'organizzazione. Comunque, un aspetto che porterà a ridefinire l'idea di testata e iniziativa editoriale in rete, la cura della titolazione e la forma nella quale vengono presentati i singoli articoli.
I video "crudi" del WSJ
Tra i nuovi servizi da offrire ai lettori online, però, questa è stata la settimana del lancio della nuova piattaforma del Wall Street Journal WorldStream. Si tratta di un canale di video «che riguarderà esclusivamente filmati catturati su smartphone da giornalisti e redattori» - precisa la testata. Video della lunghezza inferiore al minuto, esaminati e poi pubblicati in uno stream diviso per tematiche: tra gli esempi già pubblicati, riporta Poynter, c’è spazio per contenuti più ‘seri’ - come un filmato del corrispondente in Siria - e per clip che riprendono, senza commento, la sala stampa vuota prima della convention di Tampa. Più un servizio utile a inquadrare un frame, e a vedere con gli ‘occhi dei reporter’ cosa succede, che un news report: una sorta di status update filmato che il Journal consiglia poi di twittare utilizzando l'hashtag #WorldStream. Secondo il Digital Networking Managing Editor Raju Narisetti, l'iniziativa avrebbe così l'intenzione di soddisfare la fame degli utenti nei confronti dei contenuti multimediali «crudi» - e non necessariamente assimilabili a prodotti di tipo televisivo - e di offrire agli inserzionisti questo nuovo tipo di pubblico, da raggiungere poi con inserzioni pubblicitare dedicate. Una fascia che comincia a farsi appetitosa, se si considerano anche i recenti lanci del nuovo Web Video Player del New York Times e del canale streaming di Huffington Post. «Dal momento che le testate pagano tutti quei soldi per far portare in giro gli iPhone ai giornalisti, perché non sfruttare la cosa facendone un miglior utilizzo?», riassume Jeff Sonderman su Poynter.
New York Times Club
Quanto al New York Times, il suo già citato valore di brand e i nuovi sistemi di coinvolgimento del lettore - o meglio, dell'utente -, negli ultimi giorni NiemanLab ha pubblicato una proposta del digital strategist Rex Sorgatz che rappresenta in qualche modo una novità nel settore dell’editoria in rete e un'alternativa interessante al famigerato paywall. Il ‘muro’, spiega l'autore, sta andando bene, e le entrate su abbonamento hanno di recente superato quelle pubblicitarie. Ma non può bastare: «Al Times servono almeno 2 o 3 milioni di abbonati digital per sopravvivere a uno scenario post-stampa, post-pubblicitario. E io saprei come fare: membership». In sostanza, secondo Sorgatz, la testata dovrebbe mettere in campo nuovi contenuti, nuove piattaforme, nuovi prodotti declinando il tutto anche secondo il punto di vista del marketing. «It has to be cool». Il primo passo, precisa, sarebbe trovare un nome accattivante e semplice, qualcosa come ‘New York Times Digital Edition’, e fare dell’intero pacchetto un prodotto non al quale abbonarsi, ma qualcosa della quale «diventare membro». Un club che dovrebbe dare accesso a una varietà di servizi: sfruttare le partnership del gruppo editoriale per garantire sconti ai sottoscrittori, l’accesso a eventi esclusivi e dedicati, l’offerta di prodotti digitali inediti, di contenuti limitati, di app per smartphone e tablet. In poche parole, «trasformare l'abbonamento digitale nell’adesione a un club nel mondo reale, inserire ogni nuovo prodotto nel programma dedicato ai membri, incentivarne l'ingresso agli utenti in modo costante», insomma «spingere, spingere, spingere», perché la sostenibilità di una piattaforma del genere in futuro non potrà fondarsi «sulla carità: deve aggiungere valore, per avere successo». D'altronde, «People love membership», - aggiunge ironico Choire Sicha su TheAwl. «Ama appartenere a cose, ma più di questo ama avere uno status».
"Twitter è fondamentale" in 10 mosse
Twitter, infine: anche questa settimana il social network californiano è stato al centro di buona parte del dibattito giornalistico online. «Dico spesso che si tratta della cosa più utile per noi giornalisti che abbia mai incontrato in 41 anni di carriera, con la possibile eccezione del cellulare - che puoi comunque usare per leggere o mandare tweet», esordisce Steve Buttry sul suo blog, spiegandone in sostanza le ragioni con un elenco dei dieci motivi per i quali Twitter è da ritenersi strumento prezioso e irrinunciabile per il lavoro giornalistico odierno. Innanzitutto, le breaking news: «quando una notizia giunge alla tua community, che sia lo schianto di un aereo, un attacco terroristico, un terremoto, un'alluvione, un omicidio di massa o una tempesta di neve, le persone che ne hanno avuto visone o esperienza twitteranno». Cosa che rende più facile intercettare testimoni, contattarli per interviste o citare i loro tweet. Necessario - prosegue l’autore - è poi seguire persone e organizzazioni di valore giornalistico, così da avere fonti dirette e certificate su fatti e dichiarazioni («se ti occupi di sport, per esempio, devi seguire gli atleti su Twitter»), o tessere relazioni con utenti in grado di fare da fonte, facendo ricorso al cosiddetto crowdsourcing, o ancora cercare le fonti originali delle notizie, filtrare i tweet della propria community facendosi un'idea dell'’aria che tira’ su determinati argomenti. Senza sottovalutare la condivisione e la promozione dei propri contenuti, l’interazione e la possibilità di rispondere prontamente a critiche e richieste. Interessante, infine, il ribaltamento di logica che Buttry opera nei confronti di chi critica Twitter giustificando la propria diffidenza con fattori personali e ‘temporali’: «Capisco chi dice di non usare Twitter perché crede di essere troppo impegnato e non averne il tempo», spiega. Ma strumenti del genere aiutano spesso - e sempre di più - a velocizzare il proprio lavoro, e così «anch'io sono troppo impegnato, per non usare Twitter».