Com'è noto, in settimana l'uragano Sandy si è abbattuto sulla costa orientale degli Stati Uniti, colpendo pesantemente la città di New York e provocando quasi un centinaio di vittime. E come spesso accade per ogni evento di grossa portata, la cronaca dei fatti in rete, e in particolare su Twitter, è diventata tema di dibattito per i giorni a seguire, facendo da spunto per discussioni che sono arrivate a investire la sfera dell'etica giornalistica, l’uso dei new media negli scenari di crisi, la minaccia delle bufale e le pratiche editoriali da evitare, le situazioni nelle quali un tweet può giustificare un intervento della giustizia o l’irruzione nella sfera privata dell’autore, la responsabilità che ognuno deve assumersi nel momento in cui si pubblicano informazioni sensibili in contesti emergenziali.
I nuovi media in situazioni d’emergenza
L'uragano ha raggiunto l'area di New York, dopo aver devastato i paesi caraibici, lunedì 29 e martedì 30. Non pochi sono stati gli approcci nei confronti dell’evento delle diverse testate - come segnalato da Pbs e Emergency Journalism - anche in modo piuttosto inusuale e «innovativo» rispetto alla classica copertura online: la CNN ha per esempio curato i video degli utenti arrivati sulla piattaforma di citizen journalism iReport, il New York Times ha sospeso il paywall, messo a disposizione infografiche e una (suggestiva) diretta webcam dal proprio edificio, e ancora l'aggregazione di DigitalFirstMedia, le mappe - comprese quelle dei danni - offerte da Google, dal Guardian e molti altri siti, i numerosi liveblogging, le discussioni su Reddit, i tweet e i retweet, con Twitter usato spesso come strumento complementare al racconto dell'evento, se non sostitutivo rispetto al proprio portale - come per esempio per BuzzFeed e Huffington Post, rimasti senza sito per ore a causa delle condizioni ambientali. Interessante anche l'utilizzo di strumenti tipicamente ‘due punto zero’ fatto da parte di enti come la compagnia dei trasporti locale, che ha aggiornato gli utenti sullo stato delle linee grazie a Flickr, o l'uso fatto di Facebook da parte del Jersey Shore Hurricane News.
Twitter - fa notare EmergencyJournalism.net - è sembrata tuttavia la piattaforma più utilizzata da istituzioni e media, probabilmente per via della facilità d'aggiornamento mobile anche in caso d'interruzioni elettriche o della rete: secondo un'infografica di TweetArchive, infatti, le comunicazioni via mobile avrebbero di gran lunga dominato l'attività 'social' durante l'uragano, specie agli hashtag #Sandy, #Frankenstorm, #superstorm, #HurricaneSandy, #Flooding, #HowToHelp. È quasi ovvio che Twitter, a un certo punto, diventi lo stream delle emergenze e delle breaking, dal momento che - ricorda il professore della New York University Jay Rosen, il motto della professione dovrebbe essere «’Io ci sono, tu no, lascia che ti racconti’. O ‘L’ho sentito, tu no: ti racconto cos’ha detto Bloomberg’. E il fatto è che Twitter abbonda, in questo senso: ecco perché è fondamentale nel distendersi di un’emergenza». L'immediatezza di uno strumento del genere, però, è anche causa di inconvenienti - alcuni cercati, altri meno - che hanno portato a dei veri e propri ‘tilt informativi’, e addirittura testate di rilevanza mondiale a riportare notizie che si sono poi rivelate delle classiche ‘bufale’.
Le bufale e Twitter come macchina della verità
Quella di @ComfortablySmug è una storia nella storia, che comincia con la diffusione di informazioni false e si chiude con delle scuse pubbliche a tutti i cittadini di New York. @ComfortablySmug è un anonimo utente Twitter da seimila follower circa, che a un certo punto, nel flusso delle news frenetiche e incontrollate che scorrevano veloci alla voce #Sandy, ha lanciato news di sua invenzione con tanto di «BREAKING», a lettere capitali, prima dell’informazione. Borsa di Wall Street allagata, il governatore Cuomo intrappolato a Manhattan, l'ente elettrico in procinto di tagliare l’energia in zone della città: le sue bufale percorrono il fiume e raggiungono, di retweet in retweet, gli schermi di numerose testate, tra le quali CNN e Weather Channel che riportano in diretta la notizia, appunto, della borsa di New York allagata. Tra decine di rettifiche e scuse, BuzzFeed identifica il troll: si tratta di Shashank Tripathi, ventinovenne analista finanziario, ex collaboratore del New York Magazine e responsabile della campagna elettorale di Christopher R. Wight, candidato repubblicano al congresso per un collegio elettorale cittadino. Tripathi - intanto quasi sottoposto a linciaggio in rete - chiederà poi scusa all'intera cittadinanza in un comunicato diffuso in un tweet. Faccenda, comunque, non chiusa.
Infatti dal punto di vista giornalistico la cosa pone più di un problema. Secondo Sara Morrison, su Columbia Journalism Review, la questione sarebbe ben più grave: «È tutta colpa sua?», scrive, riferendosi al troll. «Se sei giornalista, e lasci che i tweet di @ComfortablySmug vadano in onda, vengano pubblicati o semplicemente ritwittati ai propri follower, allora non hai fatto il tuo lavoro». D'altro canto non sono state poche le immagini contraffatte e riproposte come autentiche: dagli squali per le vie inondate alle minacciose onde attorno alla statua della libertà tratte dal film The Day After Tomorrow e riadattate a mo' di cattura di un live streaming. Tutto materiale evidentemente non verificato da chi, da parte della classe giornalistica, ha poi creduto all'informazione e infine condiviso il contenuto: da loro, continua Morrison citando qualche esempio, «non ho sentito scuse» - sulla stessa linea Heidi Moore sul Guardian: «Even more a superstorm is no excuse for journalists not to check Twitter trolling». Al contrario, data la mole imponente di condivisioni e retweet conquistata da questi falsi, giornalisti come Alexis Madrigal su The Atlantic si sono dati da fare per discernere tra immagini autentiche e fake, costruendo una sorta di liveblogging chiamato Instasnope: fact checking in diretta sugli user content più dubbi al quale hanno contribuito, ovviamente, anche gli utenti.
Perché Twitter, in fin dei conti, è «una macchina della verità» - spiega John Herrman su BuzzFeed. Un mezzo sul quale incredibili bufale possono scorrere in grande tranquillità e esser accreditate senza alcun problema, «generando delle conseguenze» che rettifiche e correzioni «non fermeranno una volta che sono diventate virali». Ma che nel loro contagio, coinvolgendo sempre più persone, non potranno che incorrere, presto o tardi, nell'utente in grado di verificare e smentire quello stesso contenuto. Un processo di autocorrezione, simile - per dirla con Sasha Frere-Jones sul New Yorker, citato in settimana da Mathew Ingram - a quello dei forni autopulenti, la variabile più imponente importata dall'innovazione mediatica nel giornalismo: la contaminazione coi contenuti esterni, di facile costruzione e altrettanto agevole verifica, in grado di giungere a competere e a completare il servizio giornalistico classico. Che pone, però, interrogativi di carattere etico del tutto nuovi.
Il rapporto fra Twitter e realtà
Se infatti si può ritenere Twitter uno strumento fondamentale per l'attività editoriale moderna, quanto è possibile fidarsi delle informazioni che esso veicola, degli utenti che lo abitano o anche solo del mood che su di esso si ricrea durante un determinato evento? In sostanza: se questo strumento condiziona chiaramente l'attività giornalistica, come affrontare quei comportamenti che condizionano, a loro volta, Twitter? Secondo David Carr, su MediaDecoder, la platea-Twitter è sembrata - malgrado tutto - sapersi adeguare alla gravità del momento: un ecosistema al più abituato a essere «calderone di sarcasmo, spesso più divertente che utile» che in questa circostanza ha saputo essere «realtime service, cioè qualcosa col quale riuscire a vedere cosa succede mentre succede».
Spiega Carr: «Per tutta la giornata di lunedì la gente su Twitter guardava il loop infinito di informazioni sull'uragano in tv, prendendosene gioco così come succede durante la notte dei Grammy o quando c'è il Super Bowl. Ma a tempesta arrivata Twitter s'è fatto incandescente, e molto molto serio». Certo, qualcuno alla fine «ha approfittato della natura senza frizioni e totalmente democratica del mezzo, per generare - intenzionalmente - del panico». Ma la rete ha saputo proporre velocemente, e scomporre altrettanto velocemente, i rumor - malgrado, faccia notare il vice-direttore del Project for Excellence in Journalism del Pew Research Center Amy Mitchel «perfino quando un’informazione è stata corretta, c’è una buona probabilità che giunga a individui che non la vedranno mai» (citazione via Fabio Chiusi). Ma non è l'unico degli aspetti che il comportamento di individui su Twitter possono ripercuotersi, poi, nella vita reale.
@ComfortabySmug, l'utente ‘incriminato’, è stato infatti al centro di un vasto dibattito sulla liceità delle azioni di trolling durante situazioni di emergenza come quelle di questa settimana. Se infatti non è possibile proibire la diffusione di informazioni non verificate su Twitter e minare la libera espressione, una volta che la sua identità è stata resa pubblica da BuzzFeed - e a danno fatto, ossia dopo aver rischiato di mettere in pericolo la vita dei propri concittadini - che conseguenze personali possono scaturire dallo 'smascheramento'? Ed è possibile muovere dei rilievi giudiziari nei suoi confronti? Il Councilman della città di New York Peter Vallone non ha infatti nascosto a Andrew Kaczynski, reporter del sito diretto da Ben Smith, di aver chiesto all’Ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan di incriminare Tripathi, e che la richiesta sarebbe stata presa molto sul serio - sebbene, ammette Vallone stesso, si tratti di «un caso davvero difficile da mettere in piedi».
«Siamo tuti giornalisti»
Lui, Tripathi, si è già dimesso dalla campagna elettorale di Wight, benché le scuse pubbliche non contenessero la sua vera firma - come notato da Felix Salmon di Reuters su Twitter. Tuttavia, c'è da considerare il fatto che «le menzogne sono costituzionalmente protette, eccetto rare eccezioni» - come ha ricordato l'avvocato e ex direttore di USA Today Ken Paulson. Più semplicemente, un esempio di come sia difficile capire quando le azioni - come usare Twitter in casi di emergenza e pericolo per la vita altrui - sia illegale o 'semplicemente' immorale. O se sia giusto rendere pubbliche le generalità di una persona - etichettato praticamente il ‘cattivo del giorno’ in quelle ore - che opera intenzionalmente, in rete, sotto pseudonimo (la contorta questione è stata ragione anche di discussioni interne nelle redazioni, come nel caso di quella resa pubblica da GigaOM).
Di certo si tratta di situazioni che l'avvento dei social media hanno solo - seppur esponenzialmente - enfatizzato: il ‘desiderio’ di immagini al limite della violenza e la ricerca ossessiva di informazioni su uragani e simili sono gli stessi che hanno sempre tenuto milioni di persone incollate davanti alla tv, e che porta ancora oggi i giornalisti televisivi a farsi riprendere mentre riportano le ultime dalle tempeste nel bel mezzo delle tempeste, ombrello in mano. Fenomeni che strumenti come Twitter in qualche modo radicalizzano, portando alla diffusione virale immagini volutamente - e artificialmente - sensazionali che nello stream incessante di notizie e status vengono passate per vere - specie se a condividerle sono utenti, come Tripathi, che hanno pubblicato anche informazioni reali e verificate, rendendo più difficile inquadrarlo come ‘troll e basta’.
«L'informazione si muove più veloce sui social - spiega Kashmir Hill su Forbes - e si possono vedere eventi attraverso gli occhi delle persone che li stanno vivendo, piuttosto che attraverso il lavoro di un intermediario (il giornalista professionista). Ma quando vi si cercano informazioni bisogna essere scettici: se la tua prima reazione è ‘ma può essere?’, allora segui questo istinto». È fondamentale, precisa, seguire una specie di codice comportamentale per casi specifici - qui, su The Atlantic, una vera e propria guida sull’uso di Twitter in situazioni d’emergenza -: andare alla ricerca di fonti fidate e ricordarsi che il proprio contributo di diffusione ha ormai una vera e propria rilevanza giornalistica: «oggi siamo tutti giornalisti - ricorda Hill - e se proprio vuoi fare una cosa in stile The Onion (un sito specializzato in bufale, nda), almeno usa l'hashtag #kidding (un equivalente del #SiScherza italiano, nda)». Cose che @ComfortablySmug, quel giorno, doveva essersi dimenticato.
Immagini via The Atlantic (1, 2) e andjelicaaa su Instagram.