Questa settimana su RoundUp: i dati poco ottimistici del ‘World Press Trends’ sulla raccolta pubblicitaria nel mercato dei media digitali, le applicazioni «mattone» delle testate giornalistiche, un curioso esperimento editoriale svizzero, la richiesta d’istanza di fallimento della Journal Register Company, la via di fuga dei giornali dalla carta e una proposta di rincaro dei prezzi nelle edicole: «Puntiamo sulla qualità». Infine segnaliamo il botta e risposta fra la Cnn e un reporter del Guardian, che accusa la rete americana di aver ‘censurato’ parte di un documentario sulle dimostrazioni antigovernative in Bahrain su pressione del governo locale.
Pubblicità e applicazioni “mattone”: quando il digitale non basta
Secondo il report annuale ‘World Press Trends’ elaborato dalla World Association of Newspapers and Publisher (WAN-IFRA) e pubblicato questa settimana, i ricavi derivanti dalle inserzioni sui prodotti giornalistici digitali rappresenterebbero soltanto il 2,2% dei ricavi pubblicitari dell’intero settore. Dati poco incoraggianti, che farebbero di questo tipo di consumo delle news - metodo ancora «carente» quanto a «intensità», riporta la ricerca - un business model ancora non alternativo al vecchio modello pubblicitario su stampa cartacea. Alan D. Mutter, profondo conoscitore del mondo giornalistico e dei media digitali, sul suo blog 'Newsosaur' ci suggerisce indirettamente a una spiegazione: «La pubblicità acquistata sugli strumenti portatili dovrebbe salire di 4,5 volte dal livello dell’ultimo anno, fino a 7,7 miliardi di dollari entro la fine del 2016 - una somma approssimativamente comparabile a un terzo degli spazi venduti per le inserzioni nei giornali dell’intero il paese nel 2011».
Il problema, allora, non sarebbe il mezzo, ma il prodotto: Apple e Google, spiega, sono in grado di offrire strumenti e applicazioni sempre più intelligenti, capaci di guidare le nostre vite, interagire quasi autonomamente e ‘conoscerci profondamente’, così da garantire all’utente servizi appetibili e man mano essenziali, e agli inserzionisti spazi sempre più specifici e basati su un target ben preciso. «Nel frattempo», continua, «la tipica mobile app dei giornali è statica e poco intuitiva neanche fosse un mattone». Se non ci si accorge di questi cambiamenti in fretta, conclude Mutter, i giornali si perderanno la next big thing nel mondo dei media. Intanto in Svizzera un esperimento sta cercando di valicare il confine tra digitale e cartaceo, e offrire un’alternativa alla personalizzazione - la chiave è sempre quella - delle news: ‘MyNewspaper’ è un giornale, di carta, assemblato in rete dagli utenti - che scelgono cosa inserire fra una dozzina di fonti internazionali - che viene poi impaginato a piacere, stampato e consegnato il giorno dopo a domicilio per 2 dollari a numero. Il progetto pilota - sviluppato dalle Poste Svizzere - è attualmente fermo e in fase di valutazione: l’esperimento è stato reputato soddisfacente ma si attende di conoscere quale sarà l’effettiva domanda del pubblico prima di tornare alle stampe.
La bancarotta della Journal Register Company
La Journal Register Company è editore di più di 350 prodotti multipiattaforma, in grado di raggiungere un’audience di 21 milioni di americani. Mercoledì scorso, per ammissione della parent company Digital First Media, il gruppo ha confermato di aver chiesto - per la seconda volta, l’ultima tre anni fa - istanza di fallimento, nella speranza comunque di rimanere oggetto appetibile sul mercato per un’acquisizione veloce da parte di altri gruppi. «Una bella spina nel fianco nel breve periodo - ammette l’Editor Matt De Rienzo - ma la company resta redditizia». Interprete - per volere del CEO John Paton - di una filosofia digital first, la JRC ha nominato nel 2010 un advisory board composto da nomi eccellenti del settore che includono i professori Jeff Jarvis e Jay Rosen. Lo stesso Jarvis, sul suo BuzzMachine, definisce la bancarotta un «male necessario», un occasione per ripensare decisamente l’azienda e il prodotto dal momento che i giornali, dal punto di vista editoriale, economico e ‘ideologico’, hanno perso la loro centralità e «non c’è bacchetta magica che possa rimettere le cose a posto e ridarci il mercato com’era un tempo». Sulla stessa scia anche Steve Buttry, Director of Community Engagement di Digital First Media, che ripone piena fiducia nell’amministratore delegato e nel progetto rammentando - e ricordando a se stesso - che «non mi ero mai illuso che il sentiero di Digital First sarebbe stato stato facile (...) So che sarà dura, ma la mia fiducia nella nostra strategia, e nella nostra direzione, resta forte». Joshua Benton, su NiemanLab, analizza per bene il contesto societario del gruppo, giungendo a un’amara - quanto veritiera e più generale - riflessione: «Il problema dell’industria giornalistica non è nel fatto che i loro dirigenti non sanno come far soldi coi media, (...) ma che non riescono più a trarre i guadagni che riuscivano a ricavare, in scala, dieci anni fa - sebbene i loro costi strutturali siano tuttora ancorati a quelle cifre». Anni, gli ultimi, in cui si è continuato a ragionare - e a spendere - ancora in ottica printed-oriented: «Mentre i giornali erano impegnati a scrivere comunicati stampa sui licenziamenti, i loro agili concorrenti online-native sono stati in grado di partire da zero e costruire tutto in base alle strutture economiche del mercato digitale». Una specie di battaglia per la sopravvivenza, i cui esiti saranno visibili solo a lungo termine: «Sì, i giornali devono provare cose nuove, puntare sul digital first», conclude Ingram in un suo post sul caso JRC. «E sebbene i paywall aiutino, non si riveleranno altro che un muretto di sacchi di sabbia contro la marea crescente. E la realtà è che la marea sta salendo veloce, causando uno sconvolgimento i cui danni non saranno visibili prima di decenni».
«Perché non aumentare i prezzi dei giornali?». Una exit strategy
Ma come reinventare mercato e prodotti in un contesto altamente depressivo come quello attuale? Una proposta arriva in questi giorni da Frédéric Filloux, sul blog MondayNote. L’idea di Filloux, basata sugli studi dell’agenzia di consulenza marketing tedesca Simon-Kucher & Partners, sarebbe quella di alzare il prezzo dei prodotti editoriali cartacei: presumibilmente un danno per la diffusione e la circolazione delle copie, ma anche un’opportunità per abbassare i costi di distribuzione e mantenere alte le entrate derivanti dal mercato pubblicitario. Gli inserzionisti, infatti, sarebbero disposti a investire in un prodotto meno diffuso e non più locale, ma comunque di alta qualità: non una rivoluzione in grado di rilanciare la carta stampata, è l’idea dell’autore, dal momento che «l’aumento dei prezzi - è il primo punto della ricerca - ha un impatto solo marginale su un processo di diffusione ormai già devastato dalla conversione al digitale» (dati confermati dalle vendite di testate come Washington Post e New York Times riassunte in questa tabella). Tuttavia, un espediente da mettere in campo per trarre il margine di profitto più alto possibile, nel minor tempo possibile, come risposta a un calo delle entrate che appare ormai irreversibile - situazione sintetizzata icasticamente dall’agenzia tedesca con la frase «The print business is not your legacy, it’s your bank». A livello economico, spiega Filloux, «non c’è elasticità nei prezzi dei giornali. In altre parole, un significativo aumento dei prezzi non necessariamente deve trasformarsi in un crollo della diffusione. Tuttavia, i profitti extra guadagnati in questo processo possono apportare benefici negli investimenti nelle digitali». Una scappatoia. Illuminante in questo senso è il contributo di Clay Shirky su Columbia Journalism Review: «Il problema per il giornalismo americano non è solo il collasso dei ricavi, è l’intero contesto in cui operavano tradizionalmente ad esser stato alterato. Il che lascia loro tre opzioni: preservare la struttura preesistente, mentre cercano di ottimizzare e ridurre le operazioni; ristrutturarsi, ripensando non solo le dimensioni ma anche il modello organizzativo; collassare, semplicemente, cercando di far più profitti che possono prima di scomparire». Una sorta di exit strategy dalla carta.
E infine: CNN International e il documentario ‘censurato’
In questi giorni Glenn Greenwald sul Guardian ha voluto far luce sulle scelte dell’emittente americana CNN in merito alla trasmissione di un documentario girato nei mesi scorsi in Bahrain e mai mandato in onda - questa è l’accusa - dal canale internazionale della testata, la CNNi. Nel marzo del 2011 la rete ha infatti inviato una squadra di quattro giornalisti nel paese del Golfo per otto giorni nel tentativo, infine riuscito, di portare a casa del materiale per un documentario di un’ora sulle rivoluzioni arabe - in pieno fermento all’epoca - dal titolo “iRevolution”. Il prodotto, che è costato 100.000 dollari e la messa in pericolo delle fonti locali e della troupe stessa - guidata dalla reporter Amber Lyon - è stato trasmesso tre mesi dopo sul canale locale dell’emittente, la CNN americana, ma non è mai andato in onda sulla CNNi malgrado i numerosi premi ricevuti e le lamentele interne alla redazione. Una soluzione inusuale, spiegano un anonimo giornalista della rete e la stessa Lyon, trattandosi di un prodotto costoso e indirizzato originariamente proprio per un audience di respiro internazionale (si parla della «most-watched English-speaking news outlet in the Middle East»). La giornalista, poi licenziata, sospetta che la decisione fosse in parte dovuta alle pressioni del regime locale - dal momento che, come riporta Greenwald, si sarebbe vista rispondere da un Senior Producer della CNN la frase «abbiamo dovuto affrontare le lamentele del governo del Bahrain». La replica non si è fatta attendere: la CNN in sostanza assicura che il documentario non era programmato per il pubblico internazionale, che si tratta di semplice scelta editoriale, che la corporation ha sempre sostenuto l’operato dei giornalisti sul campo e che il regime del Bahrain ha avuto modo di esser criticato più di una volta nei programmi della rete. Qui la controreplica di Greenwald che per inciso, in quelle ore, aveva anche indagato sui rapporti fra la CNN e alcuni governi nazionali.