"È nel racconto che si trovano l'essenza, la quintessenza, lo scheletro del giornalismo". Sono queste parole di Domenico Quirico che esemplificano la straordinaria passione del giornalista de La Stampa per il suo lavoro. Una passione che non è stata scalfita dai tanti viaggi nelle zone più remote e difficili del mondo, dal rapimento in Siria dello scorso anno (preceduto da un sequestro-lampo in Libia nel 2011) e dalla inesorabile trasformazione che stanno subendo i media, in cui sembra esserci sempre meno spazio per il reportage in stile Quirico.
Non vuole parlare del suo sequestro perché lo considera un evento irrilevante, che toglie visibilità a ciò che invece dovrebbe balzare agli onori della cronaca, come il dramma dei cittadini Siriani che ancora vivono sotto le bombe. "Non che mi faccia male parlarne, ma è pericoloso, perché occulta quella che è la vera storia," spiega il giornalista. Il reporter è per Quirico uno strumento, che deve fare in modo che non si perda di vista il nocciolo di tutta questa storia, distratti da un sequestro che in fondo "non è nulla".
Secondo Quirico, un giornalista dovrebbe portare con sé nel ritorno a casa le storie di coloro che ha incontrato, trasformando le scorie che si trascina dentro in un racconto. Il reportage è "passione, paura, gioia, condivisione con le persone che si raccontano."
E se il panel in cui partecipa come speaker si occupa del nuovo storytelling nel giornalismo, Quirico non manca di ricordare quanto il reportage tradizionale affidato alla parola scritta sia complementare ai nuovi mezzi e alle nuove narrative digitali, e non un dinosauro sulla strada dell'estinzione.
“Io purtroppo appartengo a un mondo probabilmente destinato a scomparire. Ma non sono assolutamente un nostalgico, il reducismo credo sia una cosa assolutamente insopportabile. Credo che i nuovi strumenti di racconto abbiano la loro autenticità, il loro spazio, il loro diritto di esistere; che spesso possano essere per certi aspetti più efficaci della parola", spiega Quirico. E fa l'esempio della "tragedia della Somalia", che ha "commosso, mobilitato, fatto intervenire il mondo dal momento in cui un fotografo coraggioso è andato lì e ha fatto una foto ai bambini che morivano di fame".
Quirico si dichiara consapevole della forza di mezzi espressivi come la fotografia o il video, soprattutto per raccontare un particolare tipo di storia e per provocare una reazione nel pubblico. Eppure, spiega Quirico, "è attraverso la parola, è attraverso il racconto che la potenza evocativa di quell'immagine diventa qualcosa di più. Diventa comprensione. Diventa qualcosa che coinvolge e che spinge a cercare dei percorsi di comprensione". È quindi il giornalista di carta stampata di vecchio stampo, che racconta nel suo "vecchio, antico, sorpassatissimo modo" che deve fornire lo spunto critico alla narrazione giornalistica.
Ed è per questo che il giornalismo tradizionale, secondo Quirico, "non morirà". "Tutti i giorni so che scrivo qualcosa che è già finito, che devo rifare, devo ricostruire, devo rimettere insieme. Le mie parole valgono qualcosa di immenso ma nello stesso tempo niente, perché sono già morte", continua Quirico, paragonando il giornalismo della parola scritta alla lirica. Entrambe istituzioni antiche, un po' datate forse; ma comunque "forme di espressione della sensibilità umana" che non possono morire.