SPEAKER: WAEL ABDEL-FATTAH (fondatore Medina) – LINA ATTALAH (cofondatrice e direttrice Mada Masr) – LINA EL WARDANI (Ahram Online), BEL TREW (The Times)
CENTRO SERVIZI G. ALESSI
Quali sono state le minacce che hanno affrontato e stanno affrontando i giornalisti in Medio Oriente? Questa la domanda con cui si è aperto il panel tenuto venerdì 13 aprile al centro servizi Alessi.
La prima testimonianza è quella Lina Attalah, cofondatrice e direttrice di Mada Masr. «Ho avuto la fortuna di non aver ricevuto minacce personali – ha spiegato –, essere giornalisti in Egitto è comunque difficile. Il nostro sito è stato uno dei primi a essere bloccati, in tutto sono circa 500: non conosciamo il motivo. Ci è stato detto, da nostre fonti, che la motivazione riguarda la pubblicazione di notizie false. In realtà la motivazione è più semplice: la pubblicazione di notizie che non amano. Per esempio, abbiamo cercato di raccontare la guerra nel Sinai: per la maggior parte dei media è impossibile andare sul campo. Non abbiamo notizie, non riusciamo ad entrare per informare la gente: siamo sotto minaccia. Non ci sentiamo tranquilli. Per il blocco abbiamo fatto caso a sei enti statali: non sono fiduciosa, ma credo sia importante il gesto in sé. Intanto bypassiamo la censura pubblicando contenuti attraverso piattaforme e siti amici». Sono queste le principali forme di resistenza. Difficile anche trovare nuovi cronisti: «Ora tutti hanno paura, è stato difficile trovare un responsabile della sezione politica, ma anche lavoro sul campo di base».
Wael Abdel-Fattah, fondatore di Medina, ha creato un sito web in un momento di profonda censura. «Credo che sia il momento di creare un nuovo concetto di mezzi di comunicazione. Il dittatore sta spendendo miliardi per mummificare il giornalismo, vuole che ci sia solo la propaganda. Questa situazione esiste dal 1952. Le persone sono diventate spettatori del dittatore di turno, che si è servito del giornalismo per ergersi a Superman del Paese». Il giornalista ha citato Antonio Gramsci: «Diceva che le due condizioni per la sopravvivenza dello Stato sono il controllo e il dominio: oggi le istituzioni possiedono la rete della comunicazione perché non hanno una narrativa e non riescono a raggiungere tutti». Cosa fare, quindi? «L’autorità ha creato tra la gente un’atmosfera di odio verso i media, semplicemente perché vede le persone semplicemente come sudditi. Noi dobbiamo riuscire a farlo capire ai nostri concittadini. È nell’assenza di significato che risiede il potere. Noi non vogliamo offrire un’alternativa al mainstream, ma trovare un posto per dare un servizio, un giornalismo basato sulla ricerca». Vale la pena mettere in pericolo la propria vita? «Se scegli di scrivere, devi cercare di sopravvivere: per me vale la pena cercare di cambiare la cultura se si vuole affrontare questo muro». Quale sarà il futuro del giornalismo in Egitto? «In passato cercava semplicemente di trovare un modo per stabilire un rapporto tra la gente e l’informazione. Dal 1952 i giornalisti invece cercano di creare un rapporto tra il dittatore e il popolo. Pochissimi hanno cercato di dire qualcosa di diverso. Il futuro sta nei media, non nella massa: dobbiamo utilizzare la ricerca e l’arte come mezzi di comunicazione».
In Egitto, la disinformazione è una violazione all’articolo 57 della Costituzione: ogni persona ha diritto alla libera informazione. E Lina El Wardani, di Ahram Online, ha posto l’accento sulla collettività: «Raccogliere le notizie è un problema economico: inseguire le notizie è dispendioso, è più semplice un giornalismo più lento. Abbiamo la responsabilità comunque di raccogliere informazioni soprattutto quando ci sono storie che nessuno racconterà, come la detenzione e i processi di attivisti politici. Per quel che riguarda la sopravvivenza, l’empatia con la collettività è fondamentale, ci dà forza: dobbiamo resistere tutti insieme, opponendoci alla paura. Se si è soli è più difficile. Noi pubblichiamo sempre la notizia perché non ci facciamo illusioni sulla sopravvivenza della notizia e della nostra associazione».
Come proteggere le fonti? Bel Trew, del Times, ha parlato della sua esperienza: «Molti siti sono vietati, vengono lette tutte le email, a volte si è sotto sorveglianza. Si diventa un po’ paranoici. Si lavora con app criptate per cercare di fare interviste, bisogna tutelare le fonti e proteggere le persone che magari accettano anche di essere citate direttamente e riprese. Noi stranieri siamo fortunati perché non veniamo imprigionati spesso, lo Stato vuole essere percepito dal mondo occidentale come un alleato della democrazia, anche perché lotta contro il terrorismo. Mi vergogno di dire che nella settimana prima del mio arresto avevo ammorbidito un po’ le mie notizie: dopo questo episodio ho dubitato della mia sicurezza. Ci sono momenti in cui si decide di fare un passo indietro perché ti prendono il tesserino della stampa. Oppure, come è successo a me, si viene deportati e costretti a lasciare il Paese. Si diventa paranoici, si finisce un po’ per andare per fasi: alcune volte ci si trattiene, altre no». Le notizie che vengono dall’Egitto riflettono veramente la realtà? «A causa della pressione esercitata sui giornalisti stranieri, spesso molti non ricevono i permessi. Qualcuno riesce a fare grandi inchieste, sono molto coraggiose. In Libia non ci sono più corrispondenti stranieri: molti sono stati uccisi e rapiti, altri sono stati costretti ad andare via».
Simone Vazzana