Questa settimana in RoundUp: le dimissioni di massa dal New Republic riaccendono il tema del confronto fra giornalismo e cultura digitale, in un contesto nel quale strumenti nuovi richiedono un nuovo modo di pensare - e non solo di lavorare - ai contenuti. Intanto da First Look Media arriva Reported.ly di Andy Carvin, che intende basare il proprio progetto sul cosiddetto native journalism.
The New Republic e lo scontro tra tecnologia e giornalismo
Due anni fa il 30enne Chris Hughes, cofondatore di Facebook, ha rilevato lo storico magazine The New Republic con l’intenzione di rilanciarlo come «vertically integrated digital-media company». Negli ultimi giorni, dopo mesi di attriti fra proprietà e redazione che hanno messo di fronte due modi diversi di immaginare il presente e il futuro della testata, molti giornalisti si sono dimessi in seguito all’allontanamento dello storico editor Frank Foer e all’assunzione dell’ex capo di Yahoo News Guy Vidra come nuovo CEO (su The Daily Beast c’è il racconto della riunione decisiva, tra lacrime e «scene alla Red Wedding»).
Che il nuovo corso di Hughes non trovasse molti consensi nella vecchia redazione lo si evince da quanto spiegato da una ex redattrice del sito, Julia Ioffe, che parla di propositi «vaghi e pieni di buzzword stile Silicon Valley», e la paura diffusa che il giornale venisse trasformato in una specie di «nuovo BuzzFeed». Hughes ha cercato di difendere la propria idea di The New Republic sul Washington Post - spiegando che se avesse voluto «arraffare traffico sul sito con listicle e slideshow» l’avrebbe tranquillamente fatto -, sebbene in questi mesi sia lui che Vidra non abbiano mai risparmiato critiche allo stile eccessivamente serioso della testata, unita alla voglia di cambiare tutto (sede compresa, da spostare dalla capitale a New York) e dare un’accelerata al progetto.
L’episodio non ha potuto non scatenare i critici dei media (Choire Sicha su The Awl ha raccolto 40 opinioni sul tema, «dalla peggiore alla migliore») e riaccendere il recente dibattito sul complicato rapporto tra tecnologia e giornalismo, che mette uno di fronte all’altro un mondo nuovo non sempre capace di aderire ai canoni classici dell’editoria, e uno più antico che non ha ancora trovato un modo per sopravvivere in questo scenario - sebbene una delle motivazioni di questi licenziamenti di massa sia comunque da ricondurre anche a ragioni di carattere personale (un modo per esprimere solidarietà nei confronti del vecchio direttore «umiliato»).*
Vista da fuori, spiega Emily Bell in «Can Silicon Valley disrupt journalism if journalists hate being disrupted?», questa contrapposizione suona sempre come una guerra tra stereotipi, tra chi si riempie la bocca di "visioni" e «product development» contro chi teme un inesorabile abbrutimento morale e qualitativo della professione. Non è così, continua: esistono esempi positivi - Bezos e il Washington Post, il caso Vox Media - e uno scenario nel quale il numero di persone che si informa in Rete continua a crescere (secondo uno studio Pew di questi giorni il numero degli americani che si sente più informato grazie a Internet continuerebbe a crescere), richiedendo nuove forme di produzione e una cultura del lavoro diversa. Il problema dello scontro tra «legacy journalism» e nuove startup (o peggio ancora tra carta e web) non si può più porre: semplicemente bisogna trovare un modo per unire queste due culture e fondarne una nuova, operando nel rispetto reciproco.
I veri custodi della conversazione pubblica
D’altro canto, spostare completamente il peso dei propri sforzi sul solo versante tecnologico, ignorando il lato giornalistico, è un approccio che non può funzionare: la tecnologia da sola non salverà i media, spiega il CEO del Guardian Media Group Andrew Miller: «Qui si tratta di sfornare breaking news e storie forti, e l’idea che sopravvivremo diventando una company tecnologica» in un mercato come quello editoriale, nel quale si lavora principalmente su dei contenuti, «è solo spazzatura». Semmai, continua, bisogna fare i conti con piattaforme che si comportano come media (prima fra tutti Facebook, che proprio in questi giorni si sta dando molto da fare), per colpa delle quali la distribuzione del lavoro giornalistico «ci è ormai sfuggita di mano da un bel po’».
Un esempio su tutti proviene da un articolo di Simon Owens di questa settimana, apparso su NiemanLab: fino a poco tempo fa, col lancio di iPhone e iPad, molti editori erano sicuri di poter scommettere su nuovi supporti che permettessero di adattare i propri contenuti su applicazioni-giornale monobrand, da acquistare e sfogliare come fossero quotidiani o magazine cartacei, convinti di aver trovato un canale di distribuzione sicuro e redditizio. Anche questo tentativo, però, fallì miseramente: a emergere furono gli aggregatori, in grado di fornire notizie (per lo più gratuitamente) da più fonti e costringere gli editori a spostare i propri investimenti verso applicazioni di questo tipo - esemplare in questo senso il caso di The Daily, lanciato come primo giornale per iPad e chiuso dopo pochi mesi, o l’accordo tra media classici come il New York Times e l’applicazione Flipboard.
«L’era nella quale una manciata di magazine erano i veri custodi di tutta la conversazione pubblica è orma andata» rincara Andrew Sullivan sul suo blog: autori e giornalisti «vivono un senso d’inquietudine perpetua che infiacchisce la fiducia in loro stessi e nel proprio lavoro» scrive George Packer sul New Yorker in un articolo dal titolo «The real crisis of journalism». Una specie di cupio dissolvi che porterebbe le redazioni a tenersi a distanza dal nuovo, come topi spaventati dai gatti, o - nell'eccesso opposto - a «sopravvalutare le nuove imprese digitali, o i nuovi ricchi proprietari digitali delle vecchie company» (ne abbiamo parlato qui), anche se privi di progetti di lunga durata o di risultati concreti fra le mani.
Reported.ly e la barca nel mare delle news
Un modo per pensare a un nuovo giornalismo, senza eredità strutturali o battaglie ideologiche tra il vecchio e il nuovo, proviene dai «core values» del nuovo progetto presentata questa settimana da Andy Carvin su Medium: si chiama Reported.ly, farà capo First Look Media (il gruppo del CEO di Ebay Omidyar) e partirà tra poche settimane. Il concetto al centro dell’inizitiva è quello che Carvin definisce «native journalism», portare il giornalismo nei luoghi di discussione, aprendo racconto e costruzione della notizia agli utenti.
In poche parole, si tratta di estendere quello che Carvin e il suo team (composto da Malachy Browne di Storyful, l’italiana Marina Petrillo, il programmatore Asteris Masouras, Kim Bui, di Digital First Media, e la presentatrice radio Wendy Carrillo) hanno fatto individualmente in questi mesi: raccontare notizie e eventi sui social network - da Twitter a Reddit - contando sull’esperienza di storytelling conquistata sul campo e la rete di contatti che ne è derivata. Reported.ly riproduce in sostanza il tema caro a Carvin del «disc jockey delle notizie», nel quale il centro della scena viene riservato al racconto in presa diretta senza la necessità di proporsi come newswire o rimandare tutto a un sito (che peraltro verrà costruito solo più in là, come semplice hub).
L’aspetto più interessante della cosa, secondo Mathew Ingram su Gigaom, è l’idea di lavorare sulla notizia come processo in divenire, sfruttando le piattaforme social non come strumento di lancio dei contenuti ma di essere un punto di riferimento per chi intende partecipare al racconto in maniera attiva e fare giornalismo a prescindere dalla provenienza professionale, lavorando di filtri e connessioni.
Di certo i rischi non mancano, e Charlie Warzel su BuzzFeed questa settimana parla proprio dell’allarmante crescita dell’«Online Viglilante Detective» (Sam Biddle su Gawker ne ha analizzato anche il lato puramente estetico), una forma esasperata di ciò che negli anni duemila si definiva citizen journalism ma che fa della ricerca ossessiva di complotti e di ricostruzioni poco fondate la propria natura - esempio classico: i post su Reddit seguiti al Boston Bombing, nei quali era stato identificato l’attentatore sbagliato. D’altra parte, continua Warzel, ogni volta che eventi del genere vengono raccontati in Rete - da professionsiti del settore o meno - torna sempre più forte l’esigenza di capire che i media classici non posseggono più alcuna esclusiva sulle notizie: «è il momento di cominciare a guidare i lettori attraverso il mare delle notizie - e smettere di fingere che esista solo un modo di raccontarle».
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*= Per completezza: i dimissionari di TNR sono anche stati accusati di aver lasciato la redazione solo adesso, e per ragioni interne, e non quando in passato la testata ha ospitato contenuti controversi a sfondo razzista.