Questa settimana in RoundUp: Annalee Newitz cerca di spiegare come e perché alcuni post diventano più virali di altri; attirare l'attenzione dei lettori, e i casi di Upworthy e UsVsTh3m, che in settimana ha raggiunto il milione di like con il suo "Nordometro"; Vice e Vox Media si stanno attrezzando per entrare nello scenario editoriale dei prossimi anni; Google nel 2013 avrebbe superato l'intero comparto giornalistico americano in termini di entrate.
Il segreto per un post virale
In un pezzo intitolato «Viral journalism and the Valley of Ambiguity» Annalee Newitz su io9 cerca di capire quale potrebbe essere [tweetable alt="Questo schema cerca di spiegare come e perché diventa virale un contenuto online"] lo schema che condiziona la viralità dei contenuti online[/tweetable]. Il contributo - precisa l’autrice - non ha alcuna validità scientifica, ma si basa sulla propria esperienza di editor ed è, piuttosto, una tesi. Si definiscono articoli virali - spiega - quelli che riescono a esercitare una certa influenza su social media come Facebook, Reddit, Pinterest e Twitter, e che diventano tali - o meno - a prescindere dal loro valore editoriale, ma sulla base di dinamiche ancora tutte da decifrare. Stando allo schema tracciato dall’autrice, [tweetable alt="I contenuti viral sarebbero quelli che non contengono ambiguità, che non muovono dubbi"]a guadagnare in viralità sarebbero i contenuti ‘indiscutibili’, che non muovono dubbi[/tweetable]: quelli che una volta condivisi, «You don't have to worry whether your friends will wonder why you shared this – it's obvious» - comprendendo un arco qualitativo che può andare dai banalissimi lolcats al disvelamento di «verità nascoste» tramite fact-checking. Più difficile invece condividere analisi, articoli longform, commenti politici, per i quali è potenzialmente necessario ingaggiare discussioni in base alla loro «ambiguità» - da qui il titolo -: «è pieno di articoli letti e non condivisi», conclude, perché [tweetable]«misuriamo il successo sulla base di ciò che la gente non ha paura di condividere»[/tweetable].
Questa settimana il tema è stato in parte affrontato da Derek Thompson su The Atlantic a proposito di UpWorthy,[tweetable alt="Upworthy è uno dei siti più efficienti in fatto di viralità online"] tra le macchine più efficienti in fatto viralità con post da milioni di visite[/tweetable]. L’occasione viene dal supporto della Bill and Melinda Gates Foundation, che ha intenzione di ‘cavalcare’ lo strumento per lanciare la loro campagna online contro la povertà nel mondo. Lo staff del sito, che si fregia di essere il team che setaccia il web per scovare «stuff that matters», è noto per creare più di un titolo per ogni post - così da testare il pubblico e scegliere alla fine il migliore - con uno schema comunque ricorrente e riconoscibile che Thompson definisce «impenitente, emotivo, che incuriosisce e dura due frasi» (un esempio, «The Things This 4-Year-Old Is Doing Are Cute. The Reason He's Doing Them Is Heartbreaking»). Uno dei trucchi, spiega l’autore, è proprio quello che definisce «curiosity gap», spingere il lettore al click per soddisfarne l’interesse temporaneo. Ma non basta: secondo Eli Pariser (co-fondatore e CEO di UpWorthy) i contenuti condivisi dagli utenti (soprattutto i video) alla fine sono quasi sempre quelli che valeva la pena condividere: «Noi sappiamo quante persone cliccano, ma anche quante di queste lo condividono dopo: l’unico modo per far andare bene qualcosa è offrire la stessa qualità promessa nel titolo». Di tutt’altro avviso Nathan Jurgenson su Twitter: [tweetable alt="«Upworthy è il McRib di Internet», dice Nathan Jurgenson"]«Upworthy è il McRib di Internet»[/tweetable] taglia corto, alludendo a un panino da fast-food preconfezionato, ‘brandizzato’ e con gli stessi - poco piacevoli - effetti collaterali.
Attirare l’attenzione dei lettori
Una dei principali esempi di viralità degli ultimi tempi - con un contenuto ibrido fra socialità e news - è rappresentato dal «North-o-Meter» di UsVsTh3m. Fondato dall’ex Guardian Martin Belam, UsVsTh3m (un portale che fa del coinvolgimento dell’utente il proprio core business) ha infatti lanciato questa settimana un post interattivo fatto di domande per i lettori, una sorta di “Nordometro” - un test con domande ‘leggere’ - per capire quanto ‘del nord’ fosse chi rispondeva, invogliandolo a condividere il proprio risultato. Creato da una startup interna (la Trinity Mirror), il gioco ha attirato più di 3 milioni di visite uniche, circa 20 mila contatti unici contemporanei, superato il milione di like su Facebook e i 40 mila tweet. Sito votato al mobile first, [tweetable]UsVsTh3m è cresciuto da settembre scorso a ottobre da un milione di visitatori unici a due milioni e mezzo[/tweetable]: il successo di questo post, spiegano su Journalism.co.uk, potrebbe portarli a battere la strada degli sponsored content, per capitalizzare un risultato che ha portato a interagire (al 12 novembre) 3,6 milioni di persone.
[tweetable]La capacità di attirare l’attenzione degli utenti è la principale chiave del successo per i contenuti online[/tweetable]. È quanto emergerebbe anche da una ricerca Sandvine sull’uso che gli americani fanno delle connessioni internet, a banda larga o mobile, che penalizza fortemente i siti a contenuto informativo. Un esempio è quello di BuzzFeed, che pur essendo un portale da 85 milioni di visitatori al mese, è valutato ‘solo’ 200 milioni contro i 115 miliardi di Facebook, che in proporzione ha ‘soltanto’ 14 volte la sua user base (sul tema, da leggere anche la tesi di Wolfgang Blau intervistato in settimana dall’Espresso sulla necessità storica da parte dei giornali, ormai compromessa, di fare loro stessi da veri e propri social network e monopolizzare così l’attenzione degli utenti). [tweetable]«Il mercato premia l’attenzione che i social network sono i grado di dirigere, piuttosto che i contenuti»[/tweetable] sintetizza Zachary Seward su Quartz. Sia su desktop che su mobile a catturare maggiormente gli utenti - secondo la ricerca - sarebbero servizi come Netflix e Youtube (con predominanza di quest’ultimo su smartphone e tablet), cosa giustificherebbe il grosso investimento che stanno facendo negli ultimi tempi BuzzFeed e il gruppo Vox Media sui contenuti video: [tweetable]«Mobile is where attention is going»[/tweetable].
Vice e Vox Media: nuovi media per nuovi lettori
La battaglia per la ricerca dell’attenzione dei lettori prevede quindi nuovi strumenti, nuovi contenuti, un diverso modo di raccontare storie e di approcciarsi al lettore. Una delle notizie della settimana è l’ampliamento dello staff editoriale di Vice Media, che porterà la redazione giornalistica della testata a più di cento reporter. Nato come magazine freepress in Nord America, Vice è adesso una realtà editoriale con numerose sedi in giro per il mondo, e tutta l’intenzione di fare sul serio nel mercato delle news: vogliamo diventare «la nuova CNN» per una generazione intera, ha dichiarato ottimisticamente uno dei co-fondatori (Shane Smith) al Guardian, intenzioni confermate dai movimenti degli ultimi tempi, se si considera la spesa di 50 milioni di dollari (racimolati per lo più grazie agli sponsored content) programmata per i prossimi tre anni per arricchire la sezione “news” del progetto - storicamente impegnato a raccontare in modo del tutto peculiare fatti di attualità, inchieste e fenomeni culturali giovanili. Dinamiche che non sono sfuggite a Mathew Ingram, che avverte l’intero settore: per anni abbiamo considerato Vice - così come BuzzFeed all’epoca - poco più di un «giocattolo», ma bisogna esser pienamente coscienti del fatto che con questi investimenti (specie dopo l'interessamento di Rupert Murdoch, che ne ha rilevato il 5%) e queste intenzioni Vice farà sicuramente parte dello scenario giornalistico del futuro - che piaccia o meno ai media tradizionali.
Negli stessi giorni Vox Media - il gruppo che detiene la proprietà di The Verge, il sito sportivo SB Nation e il portale sul videogaming Polygon - ha acquistato il network Curbed per una cifra che va dai 20 ai 30 milioni di dollari, ampliando la propria offerta all’omonimo sito immobiliare Curbed, a Eater (un blog su ristoranti e vita notturna) e a Racked (shopping e lifestyle). Il trio di siti appena acquisito garantirebbe ai nuovi proprietari una media di circa cinque milioni di visitatori unici mensili in più, e la possibilità di poter offrire nuove piattaforme e nuovi lettori agli inserzionisti. Da poco il gruppo ha stanziato un nuovo investimento di 34 milioni di dollari: stando ai dati di Quantcast, [tweetable]le testate Vox Media raggiungerebbero insieme 57 milioni di visite uniche al mese, con un aumento dell’88% su base annua[/tweetable]. Fondato nel 2003, il gruppo si caratterizza soprattutto per la combinazione fra contenuti di tipo tecnico, un largo uso di grafica responsive (un esempio recente, la recensione per Playstation4) e l’alternanza fra materiale multimediale, update costanti e articoli longform originali. Un altro concorrente dal quale guardarsi, stando alla definizione di Ingram.
Google guadagna più di giornali e riviste
L’industria editoriale tradizionale d’altro canto non se la passa affatto bene, e il paragone con i leader dei nuovi mercati appare piuttosto eloquente. Questa settimana il CEO di Business Insider Henry Blodget ha presentato dalla conferenza “Ignition 2013” una slide che ha fatto parecchio rumore nel circuito mediatico americano: secondo le tabelle, [tweetable]Google da solo avrebbe superato l’intero comparto giornalistico statunitense in termini di entrate, fra quotidiani e magazine[/tweetable]. E se la crescita di Mountain View appare scontata, ad accelerare il sorpasso sarebbe stato - ovviamente - il precipitoso declino dell’industria editoriale. Ma non è tutto: guardando attentamente i dati si nota come il massimo storico di Google, raggiunto nel 2012, sia stato comunque in media con le entrate del solo settore dei magazine pre-2007/2008, ossia prima che la crisi deflagrasse e che quella dei giornali si facesse ancora più forte. Indicazioni che lasciano pensare a un crollo strutturale e sistemico, piuttosto che a un semplice declino congiunturale.
Secondo Tim Worstall su Forbes il vero fattore di crisi non deriverebbe esclusivamente dal calo delle vendite, ma anche dalla fuga di un certo tipo di inserzione solitamente ospitata dai giornali cartacei, che da soli rappresentavano mediamente un terzo delle entrate nelle redazioni: si tratta dei cosiddetti classified ads (tipicità dei giornali americani: inserzioni lavorative, annunci di vario genere, compravendite fra privati) che sarebbero migrati su internet, su siti come Monster, eBay e Craiglist, lasciando la vecchia carta senza più annunci né guadagni. Una crisi che quindi condizionerebbe meno gli scenari editoriali nazionali nei quali questo sistema pubblicitario non ha la stessa penetrazione - come quello inglese, presume l’autore, trovando conferme nel fatto che le testate locali, che ne hanno sempre fatto un largo utilizzo, vedono accelerare la velocità del loro già rapido declino.