Il mandato di Donald Trump è appena iniziato e, sebbene in molti abbiano già la presunzione di aver già individuato integralmente le intenzioni del neoeletto presidente americano, molto di quello che potrà accadere resta ancora un’incognita – come il modo in cui gestirà il rapporto con nazioni come la Russia e la Cina, per esempio. Ma quello di cui si è discusso questa sera, alla Sala Raffaello, ha rappresentato molto più che un superfluo esercizio di definizione delle proiezioni future dei prossimi quattro anni; le parole di Alan Friedman e di Andrew Spannaus, autori di due grandi successi editoriali quali, rispettivamente, Questa non è l’America e Perché vince Trump, moderati dalla giornalista Caterina Soffici, hanno tracciato chiaramente il panorama sociale e l’humus culturale, economico e politico che hanno portato all’elezione di un “narcisista patologico” con quelle determinate caratteristiche, il cui senso di inferiorità ed estraneità nei confronti dell’establishment – probabilmente la sua arma più forte – si trasforma in cieca aggressività.
Trump, in breve, non sarebbe una causa, ma un sintomo, una manifestazione. Di cosa? Del malessere americano che, da quarant’anni a questa parte, sta fermentando oltreoceano.
Un processo che non si basa esclusivamente sulla xenofobia, che non può essere spiegato solo con l’intervento degli hacker russi durante la campagna elettorale, che non si deve ridurre a una reazione nei confronti della presidenza Obama.
La vittoria di Donald Trump parte dagli anni ’70, passando attraverso tutti gli errori che gli USA hanno commesso cercando di ricoprire al meglio il proprio ruolo di “poliziotto del mondo”, e tramite tutti i tagli che democratici e repubblicani, indistintamente, hanno decretato nei confronti del welfare statunitense.
La visione di Friedman è quella di un’America ormai disillusa, triste, in cui il mito del sogno americano si è spento – sogno che, forse, non è mai esistito: uomini abbandonati, che hanno riposto le loro ultime speranze nell’uomo che gli ha promesso lavoro e protezione, ma che sta portando il Paese, inevitabilmente, verso una realtà arretrata socialmente, simile a quella di cinquanta o sessanta anni fa.
Lorenzo Tobia